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Questo articolo è stato pubblicato il 01 giugno 2014 alle ore 08:13.

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«Parla una lingua civile!». Così grida un fante francese a un'atterrita ragazza tedesca, gettata sul palcoscenico di uno spettacolino allestito per tenere alto il morale delle truppe. Fuori è in corso il massacro infinito di Verdun e i soldati lì ammassati non sanno nemmeno più se il nemico più pericoloso sia l'esercito germanico o le farneticanti strategie del loro Comando Supremo.
Si tratta – molti l'avranno riconosciuto – dell'epilogo di Orizzonti di gloria, uno dei più incisivi tra i capolavori di Stanley Kubrick. Questa scena è inizialmente dominata dalla disumanizzante logica dell'odio impersonale proprio della guerra. Per i soldati francesi, quella povera ragazza incarna il Nemico della Patria, che occorre annientare prima di venirne annientati: lei e il suo idioma, pertanto, non possono che essere barbari, incivili. Però, quando con voce tremante la ragazza inizia a intonare una dolce canzone popolare tedesca, la situazione cambia radicalmente. I soldati, poveri contadini strappati ai loro campi dalla Grande Guerra, non capiscono nulla del testo della canzone; eppure, cullati da quella tenera melodia, ritornano con la memoria al tempo della pace, alle loro famiglie, alle piccole gioie quotidiane che si scoprono tanto importanti proprio quando non ci sono più. E cominciano a cantare insieme alla ragazza. Qualcuno di loro piange; tutti avvertono la comune umanità che li avvicina a quella giovane donna, vittima quanto loro della ferocia della guerra. In un solo minuto Orizzonti di gloria ci mostra con forza straordinaria quanto assurda sia la logica bellica. Ma lo fa senza ricorrere a nessun discorso retorico, al contrario di quanto accade nell'ultima sequenza del Grande dittatore del pur sommo Chaplin, che si perde in una declamazione insostenibilmente prolissa. Riprendendo Wittgenstein, potremmo dire che la logica del cinema è quella del mostrare, non quella del dire – modalità che appartiene piuttosto alla letteratura, e forse al teatro. Nel mostrare sta la forza della settima arte.
O, almeno, tale è l'opinione di questo recensore. Perché teorie alternative dell'essenza del cinema non mancano di certo nei vasti dibattiti che hanno segnato nascita e sviluppi di una nuova fiorente branca del pensiero: la filosofia del cinema. A disposizione del pubblico italiano che voglia istruirsi su questa nuova disciplina ci sono ora due nuovi, ottimi volumi, entrambi editi da Carocci: Filosofia del cinema, di Daniela Angelucci e Filosofia del film, di Enrico Terrone. Certo, l'idea che un editore pubblichi contemporaneamente due volumi sullo stesso tema può sembrare una mossa azzardata. Ma in questo caso non lo è, per la semplice ragione che Angelucci e Terrone affrontano la questione da due prospettive molte diverse: rispettivamente, quella della filosofia continentale e quella della filosofia analitica.
Il libro di Angelucci inizia con un'acuta osservazione: la genesi del cinema non fu immediatamente artistica ed espressiva, ma in primo luogo tecnico-scientifica (perché si cercava un mezzo per studiare il movimento) e in secondo luogo ludico-spettacolare. E tuttavia il cinema non impiegò molto a divenire un'arte. Proprio in virtù di questa matrice composita, nota Angelucci, il cinema «ha dovuto costruirsi una teoria per poter diventare arte, cosicché la sua debolezza iniziale si è trasformata in una ricchezza». E per questo – come già notava Gilles Deleuze, autore di fondamentali studi sul tema – il cinema è l'arte più prossima alla filosofia, «in quanto si tratta di due attività risonanti, impegnate a rispondere con i propri insostituibili strumenti alle medesime urgenze scatenate dal pensiero». Ma Filosofia del cinema affronta anche, con chiarezza e profondità, altre questioni: come la celebre querelle (risalente almeno al surrealismo) sui rapporti tra cinema e psicoanalisi, il nesso tra cinema e realismo o quello tra la componente visibile e quella narrativa nell'opera cinematografica. Lo stile di Angelucci è quello continentale ma – sia detto per gli apprensivi – nel senso migliore di quella tradizione. Ovvero è chiaro e profondo allo stesso tempo.
Nella prima parte di Filosofia del film Terrone invece analizza i diversi ambiti in cui i filosofi analitici suddividono lo studio del cinema. In primo luogo, sua maestà l'ontologia: in che senso i film esistono come oggetti? Nello stesso senso in cui esistono le entità astratte (come i numeri o gli universali) o in quello in cui esistono le entità concrete (come questo tavolo o questo computer)? Oppure un film è tale solo all'interno di certe pratiche di una determinata comunità? C'è poi la semantica: come e cosa significano i film? E, ancora, vengono la pragmatica e l'estetica: perché ci identifichiamo così tanto con le vicende che vediamo scorrere sullo schermo, anche se sappiamo benissimo che sono soltanto finzioni? La seconda parte del libro affronta invece una questione sostanziale (che già abbiamo visto discussa, in prospettiva diversa, da Angelucci) ovvero il rapporto tra filosofia e cinema. Lo spettro delle posizioni teoriche in proposito, nota Terrone, è ampio. Si va dagli autori per i quali il cinema non ha alcuno specifico interesse filosofico a quelli che ritengono invece che esso dischiuda nuove importanti frontiere alla riflessione teoretica. Con grande finezza, Terrone dirime la questione in favore dell'ultima posizione analizzando classici come Ottobre, Il settimo sigillo e Crimini e misfatti e film brillanti ma più commerciali come Alien e Se mi lasci ti cancello. Terrone è filosofo analitico a tutto tondo ma – sia detto per gli apprensivi dell'altra parte – rifugge dai tecnicismi e dai microproblemi, concentrandosi con grande competenza sulle questioni fondamentali.

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