L’infezione di Sars, o Severe acute respiratory syndrome, partita dalla Cina meridionale a fine 2002, ha causato la morte di circa 660 delle 8mila persone infettate in tutto il mondo, in Asia soprattutto, e danni economici valutati fra i 40 e i 140 miliardi di dollari.
Mentre le autorità sanitarie e politiche di tutti i continenti stanno valutando le misure contro il virus H5N1 che potrebbe avere conseguenze ben più pesanti della Sars e più simili a quelle della "spagnola" del 1918-19, gli economisti stanno facendo i calcoli delle perdite possibili. Guida più usata, lo studio del 2003 condotto sulle conseguenze economiche della Sars da Jong-Wha Lee e da Warwick J. McKibbin, docenti di economia alla Australian National University. McKibbin è anche per il 2001-2006 fra i consiglieri di amministrazione della Banca centrale australiana.
A quaranta miliardi di dollari è stato valutato da Mc Kibbin e Lee il danno diretto alle economie dell’Asia, in particolare Cina e Hong Kong. Globalmente il danno potrebbe essere più che triplicato, secondo il modello eslaborato da Lee e McKibbin e che tiene conto oltre che delle spese sanitarie anche del rallentamento delle esportazioni, delle perdite per il turismo e per le compagnie aeree. Nel caso Sars ad esempio registrarono per alcuni mesi un crollo del 69% nei voli fra Stati Uniti e Hong Kong, mentre dopo la diffusione dell’infezione nel 2003 i voli nella regione Asia-Pacifico crollarono del 45 per cento.
Appena 24 ore dopo essere stata identificata in Cina nel 2002 la Sars, assai meno temibile della H5N1, era già diffusa in 5 Paesi e in alcuni mesi si propagò in 30 Paesi su sei continenti. In Canada vennero contagiate 438 persone, con 43 vittime, e la Canadian Tourism Commission stimò che il costo per viaggi e turismo fu di 419 milioni di dollari Usa. Nella sola provincia dell’Ontario, le autorità valutarono i costi sanitari in 763 milioni soprattutto per reparti speciali a grande isolamento per gli ammalati e protezione del personale addetto.
«Questo impatto sarebbe poca cosa a fronte di una pandemia di 12-36 mesi su scala mondiale», ha scritto sul numero di luglio-agosto di Foreign Affairs Michael T. Osterholm, epidemiologo all’Università del Minnesota. Secondo il ministro della Sanità, Michael Leavitt, una pandemia di H5N1 potrebbe provocare negli Stati Uniti da 100mila a 2 milioni di morti (furono più di 600mila in Nordamerica e più di 300 mila in Italia 85 anni fa quelli della "spagnola") e oltre 10 milioni di ricoveri con costi sanitari eccedenti, nello scenario peggiore, i 450 miliardi di dollari.
«L’attuale epidemia di influenza aviaria H5N1 in Asia è senza precedenti come portata, diffusione e nelle perdite economiche che ha provocato», scriveva già nel marzo 2005 l’Istituto di medicina della National Academy of Science americana. Allarmi analoghi sono stati lanciati in Europa dalla Ue e da varie autorità sanitarie nazionali, attente a non sollevare panico ma anche a mettere in guardia sulla potenziale gravità della situazione.
Secondo Osterholm, il cui scenario più pessimistico oltrepassa e di molto quello peggiore del Governo americano ed è tracciato trasponendo ai numeri di oggi i dati su contagi e morti del 1918-1919, l’H5N1 potrebbe fare dai 30 ai 384 milioni di vittime su scala mondiale. Il virus della spagnola causò la maggior parte delle vittime fra i giovani tra i 18 e i 40 anni, e questo perché colpiva in modo più virulento chi aveva i sistemi immunitari più forti. Secondo Osterholm occorre uno sforzo congiunto per produrre vaccino per tutto il mondo, oltre sei miliardi di dosi. I Paesi autosufficienti o che si riforniscono in tempo non possono stare tranquilli. Perché «se il resto del mondo non ha il vaccino, anche i vaccinati saranno devastati quando l’economia globale arriverà bruscamente a fermarsi».