Poca e male indirizzata.
La spesa in ricerca in Italia è scarsa. Le risorse pubbliche sono appena lo 0,62% del Pil. Quelle private (0,54%) sono drammaticamente inferiori rispetto al resto del mondo sviluppato, essendo addirittura sotto alla metà della media dell'Unione europea (1,17%), Paesi dell'ex socialismo reale inclusi. Ma questa scarsità non si accompagna affatto a un uso più efficiente. A causa di burocrazia, commistione di ruoli, logiche spartitorie.
Perciò prima di pensare ad ampliare la spesa occorre cambiarne il metodo di governo. Giungendo a una selezione rigorosa dei settori, dei centri, dei programmi e delle personalità di eccellenza. Attraverso la valutazione del merito, orientando i finanziamenti sia in base alla prevedibile qualità delle istituzioni e degli studiosi coinvolti sia attraverso il controllo dei risultati effettivamente conseguiti.
Sulla valutazione scientifica ecco tre spunti di riflessione. Il primo è di metodo. La scelta dei grandi settori da privilegiare (fra i 14 convenzionalmente definiti dal Cun) dovrebbe essere effettuata esclusivamente da Governo e Parlamento, cioè con decisioni prese dall'alto, perché a loro compete la responsabilità delle grandi strategie. All'opposto, solo le comunità scientifiche nazionali e internazionali possono identificare, dal basso e nei vari sottosettori, quali siano le strade più promettenti, i centri e le persone di punta. Oggi, invece, nella politica della ricerca del nostro Paese troppe decisioni sono concertate senza separazione di ruoli, troppi filtri burocratici sono frapposti tra la parte alta delle fonti di finanziamento e la parte bassa dei suoi destinatari, troppe (ir)responsabilità sono condivise dai vari attori, secondo logiche spartitorie.
Il secondo spunto è di contenuto: vanno esplicitati i criteri tecnici della valutazione. Per cominciare, bisogna contestare le frequenti quanto infondate tesi qualunquiste di chi sostiene che sarebbe impossibile concordare cosa sia meritorio nella ricerca, perché le diverse premesse di valore condizionerebbero le posizioni di chi, come nell'Inferno dantesco, "giudica e manda". La recente esperienza del Civr (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca), che per la prima volta nella storia italiana sta per concludere la valutazione completa dei prodotti di ricerca realizzati nell'ultimo triennio, mostra che in quasi tutti i settori il grado di consenso tra gli esperti è molto elevato, nonostante (ma più probabilmente grazie a) l'alta presenza di non italiani fra i valutatori (20-25% del totale) e nonostante l'ampissimo spettro di posizioni e convinzioni sostenute sia dai giudicanti che dai giudicati. Perché la prima qualità necessaria in chi valuta (non meno che in chi fa ricerca) è l'onestà intellettuale. Che deve essere affiancata dalla competenza e dalla propensione a innovare, anch'esse necessarie tanto nei valutatori che nei valutati.
Affermare la rilevanza della competenza sembra una banalità, eppure non è fuori luogo se sono vere (e finora non sono state smentite dagli interessati) le pesanti critiche mosse in tre articoli de Le Scienze del gennaio 2006 ai neopresidenti di due fra i più importanti enti di ricerca italiani, il Cnr e l'Enea, l'uno autore solo di tre pubblicazioni giudicate autorevoli (stando all'archivio del Thomson Isi web of knowledge, con zero citazioni nella letteratura scientifica internazionale), l'altro di due pubblicazioni (e una citazione). Gli indici bibliometrici non sono l'unico strumento di misurazione del valore scientifico, ma se sono molto inferiori a quelli dei corrispondenti vertici stranieri ciò getta un dubbio sulla capacità di valutazione della competenza nel nostro sistema di ricerca. Per quanto riguarda la propensione a innovare, è rara precisamente in quelle realtà che più ne avrebbero bisogno, vivendo di autoreferenzialità, con limitati scambi con il resto del mondo e largo utilizzo del principio d'autorità.
In genere competenza, onestà intellettuale, propensione a innovare sono difficili da trovare incarnate in una sola persona. Per esempio, i ricercatori senior di una certa età sanno di solito guardare lontano e hanno il coraggio di puntare al nuovo, ma normalmente posseggono una formazione e una strumentazione tecnica obsolete. I giovani beneficiano di studi più aggiornati, ma spesso sono alle prese con analisi puntuali su cui lavorano con accanimento, nella speranza di trovare una loro originalità "di nicchia". I ricercatori italiani all'estero e gli stranieri, rispetto a quelli residenti, hanno meno interessi propri da difendere nel nostro Paese e maggiore abitudine alla combinazione di estrema fiducia e severe sanzioni professionali, se necessarie, ma posseggono meno informazioni su vincoli e orientamenti della ricerca in Italia.
Perciò il terzo spunto è in realtà una proposta: affinché competenza, onestà intellettuale e coraggio di innovare siano assicurate nella composizione dei gruppi di valutazione, questi dovrebbero avere una quota significativa di scienziati stranieri e di giovani italiani che lavorano all'estero in posti di prestigio; una frazione dovrebbe essere ricoperta da ricercatori italiani residenti che si siano distinti per la qualità e l'impatto delle pubblicazioni, secondo gli indici bibliometrici internazionalmente accettati; infine, una percentuale residuale dovrebbe essere appannaggio dei "grandi vecchi" nostrani, che spesso già si trovano, per meriti acquisiti, in posizioni di massimo potere in Italia. A tutti dovrebbero essere garantite condizioni di indipendenza e terzietà tanto rispetto al Governo che alle potenti burocrazie ministeriali e accademiche. Magari attraverso l'istituzione di un'Authority.