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6 agosto 1945, l'Atomica su Hiroshimadi Stefano Biolchini |
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4 agosto 2006
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«A che serve essere versatili quando siamo tutti su un treno che corre defilato sul suo binario unico verso la catastrofe?» L'interrogativo è di Günther Anders. Per il filosofo tedesco di Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki, dopo la bomba atomica la salvezza non sembra più una realtà possibile. Uno scarto ancor più inquietante se, notizia di questi giorni, l'attuale presidente della conferenza episcopale statunitense, William Skylstadt, parla de "la bomba" equiparandola al terrorismo attuale, perché «né l'una né l'altro fanno distinzione tra combattenti e non combattenti, e così la minaccia di una guerra nucleare globale è forse oggi diminuita, solo per essere sostituita dalla prospettiva del terrorismo nucleare». E questo, tanto per restare alla cronaca, mentre dalla Corea all'Iran la proliferazione nucleare non sembra conoscere tregua. Eppure sono passati 61 anni. Sì sessantuno anni fa, alle ore 8, 14 del 6 agosto 1945 «Little Boy» veniva lasciata cadere sulla città di Hiroshima. Quasi settantamila persone scomparvero all'istante, "assorbiti" per sempre dal grande fungo; altri settantamila morirono per effetto delle radiazioni e delle ustioni nei giorni seguenti. Tre giorni dopo «Ragazzino», un altro nome vagamente brioso e familiare (dal gusto prettamente americano), «Fat man», si sarebbe legato indissolubilmente alla catastrofe di Nagasaki: il Ciccione al plutonio scatenò infatti un inferno da 39 mila morti disintegrati all'istante, e 25 mila vittime nelle settimane a seguire. «Dio mio che cosa abbiamo fatto?» si domandò uno dei piloti dell'Enola Gay vedendo esplodere su Hiroshima la bomba appena sganciata dal loro velivolo. Quesito a cui non avrebbero saputo rispondere con precisione neppure i padri dell'ordigno, se lo stesso fisico ungherese Edward Teller, che alla bomba lavorò sotto la direzione di Robert Oppenheimer, parlò di «possibilità che lo scoppio della bomba atomica potesse innescare una reazione a catena tale da incendiare l'intera atmosfera». «Un tuono di luce abbagliante»: così descrivono la bomba gli «hibahushas», gli irradiati scampati all'inferno. Per molti di loro dopo l'atroce esperienza, un unicum nella storia dell'umanità, sarebbe poi arrivata l'ora dell'onta terribile, del rifiuto da parte della società, financo dei congiunti. In loro il Giappone rivive, come in una sorta di tableaux vivants, gli orrori dell'esercito imperiale, la sconfitta, le paure ancestrali della contaminazione e dell'ignoto. Tanto è bastato per far di loro, con le lo loro ustioni e ferite, gli spettri di un passato scomodo e doloroso: da rimuovere, nell'impossibilità di scordare. Perché basta evocare il solo nome di Hiroshima per racchiudere e rappresentare l'atrocità della seconda guerra mondiale. L'olocausto sta ad Hiroshima non meno che ad Auschwitz. Eppure la città è oggi più che mai viva, con i suoi 1,2 milioni di abitanti. All'epoca del «Pikadon», come con un so che di ineluttabilmente familiare i suoi abitanti chiamano la grande bomba, la città nipponica contava 350mila abitanti. E in un Giappone fiero di aver voltato pagina e proiettato con convinzione verso il futuro, Hiroshima resta indissolubilmente oltre che gelosamente legata all'immagine di città della memoria e della testimonianza, così come certificano il visitatissimo Parco della memoria e della pace e il «Duomo atomico», protetto dall'Unesco come Patrimonio dell'Umanità.
«Metteremo fine al genere umano, oppure l'umanità rinuncerà alla guerra?» scrivevano nel loro Manifesto Bertrand Russell ed Albert Einstein (http://www.pugwash.org/about/manifesto.htm ). Dal 1945 non sono più state usate in guerra le bombe atomiche, ma siamo ben lontani dal disarmo necessario suggerito da Russell e Einstein, con oltre 36 mila testate nucleari ancora in giro per il mondo. Visitando il Parco della Memoria e della Pace di Hiroshima c'è chi dice che anche i rintocchi delle campane scintoiste acquistino una eco unica; come unica dovrebbe restare l'esperienza di Hiroshima e Nagasaki. «La possibilità dell'Apocalisse è opera nostra. Ma noi non sappiamo quello che facciamo» scriveva il filosofo Anders. Ecco, la risposta al pilota di Enola Gay è forse tutta qui. Nella speranza che l'orrore non sia stato inutile.
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