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31 ottobre 2006

Elezioni di mid-term negli Usa, i repubblicani rischiano la sconfitta nel pantano iracheno

di Elysa Fazzino

WASHINGTON - Questa volta la politica estera conta: gli americani andranno alle urne per le elezioni di mid-term, il 7 novembre, più preoccupati del solito di quello che succede fuori dagli Stati Uniti. Iraq, Iran, Corea del Nord sono onnipresenti nei dibattiti elettorali, sotto il comune denominatore della sicurezza minacciata. L’immigrazione tiene banco negli stati al confine col Messico, inquieti per l’invasione dei clandestini. Ma contrariamente alle speranze dei repubblicani, il mix di paure non gioca a loro favore: nei sondaggi i democratici sono in vantaggio.
Per ironia della sorte, l’Asse del Male denunciato dal presidente George W. Bush si vendica creando allarmi che l’amministrazione repubblicana al potere è giudicata incapace di gestire, almeno secondo la maggioranza degli americani. Lo scontento per la gestione della guerra in Iraq, la destabilizzazione in Medio Oriente con la recrudescenza del terrorismo e i timori per le ambizioni nucleari di Teheran, l’aperta sfida atomica di Pyongyang: ce n’è abbastanza per indurre gli elettori a giudicare anche la politica estera di Bush quando deporranno la loro scheda il 7 novembre per rinnovare tutti i deputati della Camera e un terzo dei senatori.
La politica interna si farà sentire di più là dove si vota per i governatori e per iniziative di legge statali, come il bando dei matrimoni gay, l’aumento della retribuzione minima, la ricerca sulle cellule staminali. L’effetto traino delle consultazioni abbinate al voto politico può essere decisivo per mobilitare elettori dell’una o dell’altra parte politica. Ai democratici basterebbe guadagnare 15 seggi alla Camera e sei al Senato per conquistare il controllo dei due rami del Congresso. Alla Camera hanno buone possibilità di farcela – e sarebbe la prima volta dopo 12 anni -, al Senato l’impresa è più difficile.
Nelle elezioni di mid-term in genere i cittadini Usa pensano ai problemi che li toccano nella vita di tutti i giorni, occupazione, istruzione, sanità. Quest’anno la situazione in Iraq è il problema numero uno, con netto distacco sull’economia. Nell’ultimo sondaggio del Pew Research Center il 27% degli intervistati indica l’Iraq come il tema più importante nel proprio voto per il Congresso, il 20% cita l’economia, il 18% la sanità, il 14% il terrorismo e l’11% l’immigrazione. Nell’analogo rilevamento di Newsweek, l’Iraq è la priorità per il 31% degli americani, l’economia per il 18%.

Repubblicani puniti per l’Iraq
Dai più recenti dati raccolti da Newsweek risulta che il 45% degli americani considera i democratici capaci di gestire meglio la situazione in Iraq, mentre il 33% dà più credito ai repubblicani. La maggioranza degli americani, il 60%, pensa che gli Stati Uniti stiano perdendo terreno negli sforzi per portare in Iraq sicurezza e democrazia. E’ l’opinione dell’85% dei democratici e solo del 22% dei repubblicani, ma quello che può determinare l’esito del voto è il fatto che il 67% degli indipendenti condividano questo giudizio. Allo stesso modo, il 61% ritiene che gli Stati Uniti debbano fissare un calendario di ritiro delle truppe Usa dall’Iraq: lo pensa il 75% dei democratici, il 64% degli indipendenti e anche il 39% dei repubblicani.
L’insoddisfazione per i costi umani e finanziari della guerra – oltre 2.800 soldati Usa morti e una spesa globale stimata tra uno e due trilioni di dollari - pesa soprattutto sulla popolarità di Bush e dei repubblicani. Il tasso di approvazione del presidente oscilla dal 34 al 39% a seconda dei sondaggi. E anche se il livello di consensi per il Congresso nel suo complesso è molto basso - va da 16 al 31% -, i democratici se la cavano meglio dei repubblicani, con parecchi punti di distacco.
Sfruttando i rating tradizionalmente positivi in materia di sicurezza, gli strateghi repubblicani hanno cavalcato la paura insistendo sul fatto che il conflitto iracheno è un fronte cruciale della lotta al terrorismo: la sconfitta in Iraq – è stato il refrain dei comizi elettorali - trasformerebbe il Paese in un santuario per i terroristi che da lì potrebbero lanciare nuovo attacchi contro l’America. La strategia aveva fatto risalire brevemente la popolarità di Bush sopra il 40%, in coincidenza con l’anniversario dell’11 settembre, ma non ha retto all’insofferenza per l’escalation della violenza e dei morti: il mese di ottobre è stato il più letale dal gennaio 2005.
Segnale sintomatico è il dissenso tra i militari. Due ex generali dell’esercito Usa che hanno prestato servizio in Iraq e hanno votato repubblicano hanno annunciato che ora voteranno democratico: i due ufficiali, John Batiste e Paul Eaton, che in primavera avevano chiesto di licenziare il capo del Pentagono Donald Rumsfeld, sono convinti che una vittoria dell’opposizione spingerà l’amministrazione a cambiare rotta nella sua disastrosa politica in Iraq.
La crisi nucleare in Iran e in Corea del Nord è balzata alla ribalta della cronaca nel periodo pre-elettorale, contribuendo ad accentuare le ansie degli americani. Ma il 76% è contrario a inviare truppe in Iran e l’80% è contrario a inviarle in Corea del Nord. E rispettivamente il 54% e il 58% non approva neppure attacchi aerei mirati contro i siti nucleari sospetti dei due “Paesi canaglia”.

Affondo sulla sicurezza
Nella fase finale della legislatura, i repubblicani hanno portato al varo una serie di leggi che si prefiggono di proteggere meglio gli Stati Uniti dal terrorismo. Il tema ha una doppia valenza di politica estera e interna e serve all’amministrazione Bush per difendere le scelte controverse soprattutto in Iraq.
E’ stata varata la legge che regolamenta le commissioni militari per processare i presunti terroristi detenuti a Guantanamo e benedice le prigioni segrete della Cia nel mondo. Un’altra legge legalizza il controverso programma di spionaggio anti-terrorismo, senza mandato del tribunale, sulle telefonate e le e-mail tra l’estero e gli Stati Uniti. Una legge rafforza la sicurezza nei porti americani aumentando i controlli sui cargo in entrata e prospettando in futuro controlli nei porti di partenza.

Immigrazione a doppio taglio
In extremis, i repubblicani sono riusciti a far passare in Congresso una sola misura sull’immigrazione: il via libera alla costruzione di una barriera di oltre mille chilometri tra Stati Uniti e Messico per impedire l’ingresso dei clandestini. Denunciata dal presidente messicano Vicente Fox come un nuovo “muro di Berlino”, la barriera può mobilitare al voto la base repubblicana angustiata dalla presenza di 12 milioni di immigrati illegali.
Come sulla guerra in Iraq, anche sull’immigrazione molti candidati repubblicani prendono le distanze da Bush, perché ha proposto un piano per la graduale regolarizzazione degli immigrati clandestini che gli ultraconservatori considerano un’inaccettabile sanatoria. Il pugno di ferro è molto più popolare negli stati di confine e nei comizi gli applausi scrosciano per chi proclama «stop all’invasione» e promette un giro di vite alla frontiera. Toni duri che possono però dispiacere all’elettorato ispanico, provocando una contro-reazione.
I democratici sperano che prevalga la disillusione: in Arizona, dove la questione dell’immigrazione è dominante, i repubblicani hanno la maggioranza nel parlamento statale da sei anni e – secondo l’opposizione - non hanno fatto nulla per risolvere i problemi provocati dagli immigrati illegali nelle scuole, per la sanità e le forze dell’ordine.
Oltre il 60% degli americani è insoddisfatto di come vanno le cose negli Stati Uniti, è convinto che il Paese stia andando nella direzione sbagliata. I democratici sperano di trasformare la voglia di cambiamento in suffragi elettorali. A loro favore, ci sono gli errori di politica estera dell’amministrazione Bush.



 

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