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6 dicembre 2006 |
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Il nuovo capo del Pentagono Robert Gates: «In Iraq non stiamo vincendo la guerra» |
La svolta 'realistà di Washington si materializza in una sala del Senato, nelle parole
del prossimo capo del Pentagono, Robert Gates. Alla vigilia della presentazione di un atteso rapporto bipartisan sul futuro dell'Iraq, il successore di Donald Rumsfeld ha detto con insolita franchezza quello che l'amministrazione Bush ha evitato fino a ora di ammettere: gli Usa non stanno vincendo in Iraq. Al contrario, c'è il rischio di una disfatta che innescherebbe una «conflagrazione regionale» in Medio Oriente.
«Non stiamo vincendo in Iraq, ma non stiamo perdendo», ha precisato Gates poche ore dopo aver scosso gli Usa con il suo netto "no", in risposta a un senatore che gli chiedeva se l'America stia vincendo la guerra, come sostiene George W.Bush.
I militari non hanno perso una sola battaglia, ha detto il nuovo leader del Pentagono, temendo di scoraggiare i soldati al fronte, ma la situazione in Iraq «nel suo complesso» dimostra che gli Usa «al momento» non vincono. Una correzione del tiro che non ha cambiato la sostanza delle parole di Gates, accolte da lodi anche da parte dei democratici, che gli sono valse un rapidissimo e unanime via libera della commissione Forze armate del Senato dopo una sola giornata di audizioni. Il voto sarà seguito da una rapida approvazione domani da parte dell'assemblea plenaria, che lo spedirà a
prendere subito il comando del ministero della Difesa, in un momento in cui l'America deve decidere cosa fare di un conflitto già durato più a lungo dell'impegno degli Usa nella Seconda Guerra Mondiale. Le possibili ricette saranno presentate oggi al presidente George W. Bush dall'Iraq Study Group, il gruppo di lavoro guidato dal repubblicano James Baker e dal democratico Lee Hamilton. I "saggi" hanno dato a Bush un'anteprima del loro lavoro in un pranzo alla Casa Bianca, nelle stesse ore in cui Gates deponeva in Congresso. Il portavoce di Bush, Tony Snow, ha messo le mani avanti sottolineando che non c'è da aspettarsi «una sorta di magico cambio di direzione», perchè sono tanti i fattori di cui tener conto, comprese le reazioni del governo di Baghdad. Dalla Casa Bianca sono comunque attese entro qualche
settimana decisioni che potrebbero segnare una svolta non solo nella strategia militare, ma nell'intera politica estera di Bush, per esempio coinvolgendo Iran e Siria nella soluzione della crisi. Toccherà poi a Gates, dal suo nuovo ufficio al Pentagono, trasformare le direttive del presidente in scelte operative sul terreno in Iraq.
«Tutte le opzioni sono sul tavolo, sono aperto a ogni idea», ha detto Gates ai membri della commissione del Senato. Il ministro designato è rimasto sul vago su quale sia il suo orientamento riguardo a temi cruciali come il numero delle truppe da tenere in Iraq o a un possibile calendario per la loro riduzione. Indirettamente, Gates ha lasciato capire che in ogni caso la guerra può durare ancora un paio d'anni: «Il nostro operato nel prossimo anno o due - ha detto l'ex direttore della Cia scelto da Bush per sostituire Rumsfeld - determinerà se i popoli americano e iracheno e il prossimo presidente degli Stati Uniti confronteranno una situazione in lento ma progressivo miglioramento in Iraq e nella regione, o andranno incontro al rischio realistico di una conflagrazione regionale».
Le parole di Gates sono state definite dal senatore Carl Levin, prossimo presidente democratico della commissione, «una gradita ventata di onestà e candido realismo, che è stato assente fino a oggi nell'amministrazione». Gates non ha avuto remore nel definire «inaccettabile» la situazione attuale e bocciare quello che Rumsfeld e i generali hanno fatto dal 2003 a oggi in Iraq. Rispondendo al senatore repubblicano John McCain, un aspirante presidente che da sempre sostiene che gli Usa hanno combattuto con troppi pochi uomini, il futuro ministro ha detto che tra gli errori «c'è
chiaramente il fatto che le nostre truppe erano insufficienti in Iraq, dopo l'invasione, per mantenere il controllo del paese». Una sconfessione della dottrina Rumsfeld, basata sul ricorso ad armate leggere e supertecnologiche.
Nel corso della deposizione, Gates ha cercato di offrire di sè l'immagine di un leader indipendente pronto a non lasciarsi intimorire dai 'falchì dell'amministrazione. Rispondendo al senatore Ted Kennedy, che gli ricordava la sua responsabilità
di fronte alle famiglie che stanno perdendo figli in Iraq, Gates si è fatto serio in volto e ha ricordato che da rettore di università in Texas si è trovato per anni «a condividere
tempo, aspirazioni e speranze» con studenti che poi sono morti in divisa nella guerra al terrorismo. «Alla fine, è tutto molto personale per ciascuno di noi», ha detto Gates. «A ieri, sono 2889 i morti in Iraq. È un grosso numero, ma ogni singolo numero rappresenta non solo una tragedia individuale per il soldato ucciso, ma per l'intera famiglia e i suoi amici. E ne sono pienamente consapevole».
Gates ha citato il caso di una donna che la sera prima lo ha avvicinato in albergo e gli ha detto: «Ho due figli in Iraq, per amor di Dio li riporti sani e salvi a casa. Io prego per
lei». Questa, ha detto il futuro ministro, «è la vera pressione» sulle sue spalle, non paragonabile a quella che può ricevere dal mondo politico. «Non sono venuto a Washington - ha detto - per fare il soprammobile e per non dire esattamente
quello che penso. Lo dirò, con franchezza e coraggio, alle persone a entrambi i capi di Pennsylvania Avenue», l'arteria di Washington che unisce la sede del Congresso alla Casa Bianca.
(servizio agenzia Ansa)
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