Abdullah Gül ha gettato la spugna: il ministro degli Esteri turco, candidato presidente del partito filoislamico al governo Akp, domenica 6 maggio è stato costretto a ritirare la sua controversa candidatura a capo dello Stato, dopo che ancora una volta in mattinata al Parlamento non era stato raggiunto il numero legale di 367 deputati presenti. Il suo partito islamico-conservatore Akp, che esprime anche il premier, Tayyip Erdogan, è stato anche costretto a rinunciare a continuare i tentativi di eleggerlo con l'attuale procedura parlamentare, nonostante che il presidente del Parlamento, Bulent Arinc, avesse già convocato una nuova votazione presidenziale prima della scadenza del mandato dell'attuale presidente, Ahmet Necdet Sezer.
Ma tutto ciò non significa che le polemiche e le controversie costituzionali e i possibili interventi della Corte Costituzionale siano cessati. La prima ragione è che Erdogan e Gul hanno affermato che non intendono cambiare la data del 22 luglio fissata dal Parlamento stesso (dove il loro partito Akp ha al momento una schiacciante maggioranza) per le elezioni anticipate. Hanno sfidato così l'opinione dei partiti di opposizione e dei costituzionalisti che ricordano, infatti che l'art. 102 della Costituzione afferma che «il Parlamento che non riesca ad eleggere il presidente, deve andare, immediatamente alle elezioni», e sostengono di conseguenza che le elezioni devono essere fissate «al più presto possibile» e cioè il 24 giugno. La questione ha un sottofondo politico (giudicato da alcuni commentatori «alquanto desolante»), dato che l'Akp ha interesse a tenere le elezioni il 22 luglio, in piena calura estiva, quando la maggioranza degli elettori dei partiti laici va al mare, mentre il suo elettorato, prevalentemente rurale, resta a casa e al lavoro.
Una seconda controversia costituzionale potrebbe sorgere per l'insistenza dello stesso Erdogan e del suo partito che il Parlamento (dove dispongono di una schiacciante maggioranza di 352 seggi su 550), benchè ormai praticamente disciolto, approvi domani il progetto di riforma costituzionale dello stesso Akp per instaurare in Turchia l'elezione diretta del presidente. Erdogan ha così sfidato le opinioni dei costituzionalisti che affermano che dopo il fallimento dell'elezione parlamentare del presidente, il Parlamento stesso non può decidere una riforma costituzionale straordinaria, ed in specie l'elezione diretta del capo dello Stato.
Erdogan e il suo partito hanno evidentemente deciso di fare della riforma presidenzialista un argomento maggiore della campagna elettorale: lo stesso premier domenica sera ha sfidato i partiti di opposizione (in primo luogo il neonato Partito democratico che gli ha promesso il suo appoggio, ma anche il Chp socialdemocratico che considera la riforma «affrettata»): «Se si oppongono, ne risponderanno al popolo alle elezioni». Quindi il partito islamico (moderato) di Erdogan e Gül non solo non ha rinunciato al suo obiettivo di fare eleggere un suo esponente alla presidenza della Repubblica, violando la regola non scritta (la «Costituzione materiale» turca) che vuole che il presidente della Turchia sia un laico a tutta prova, ma sembra disposto anche a rischiare di «forzare la Costituzione formale». Tale propensione sembra fare presagire una campagna elettorale infuocata, anche perchè la Turchia laica, con in testa i militari e gli alti magistrati turchi, considera l'ipotesi di un presidente filoislamico come «l'inizio della fine della Costituzione laica ispirata al Padre della Patria (Mustafà) Kemal Atatürk» ed è disposta a tutto pur di evitarlo, anche perchè considera le forzature delle norme vigenti alla stregua di un «tentativo di golpe bianco».