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Turchia divisa anche sull'Fmi

Vittorio Da Rold

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18 luglio 2007


ANKARA. Dal nostro inviato
In un Paese spaccato a metà tra laici e filoislamici, che si appresta a decidere domenica prossima i suoi equilibri futuri, nelle elezioni politiche più importanti degli ultimi decenni, l'economia non poteva sfuggire alle aspre polemiche della campagna elettorale.

Ad accendere la miccia è stata la possibilità, fatta circolare ad arte nei circoli governativi, di sganciarsi dai finanziamenti del Fondo monetario internazionale a partire da maggio 2008, data in cui scadrà l'ultimo prestito standby. Se tutti i partiti in lizza sono d'accordo, in linea di principio nel fare a meno dei soldi dell'Fmi,in nome di un condiviso orgoglio nazionale, i laici temono che dietro la manovra dell'Akp, il partito filoislamico del premier Recep Tayyip Erdogan, si nasconda la volontà di sganciarsi dall'Occidente a favore dei Paesi arabi e musulmani.

Il tallone d'Achille della Turchia, che peraltro gode di ottima salute nei suoi fondamentali economici, è il deficit delle partite correnti, che quest'anno potrebbe raggiungere il 7,2% del Pil, un po' più elevato del previsto ». Nonostante l'export sia in crescita e la domanda interna si mantenga moderata, pesa la bolletta petrolifera, per cui è necessario un flusso costante di investimenti stranieri per pareggiare i conti di Ankara. Una problema a cui si può tenere testa se gli investimenti stranieri (Fdi) e i prestiti a lungo termine (Fmi) continueranno copiosi, come è avvenuto nel 2006 con l'arrivo, di ben 20 miliardi di dollari di soli investimenti diretti.

Ma da dove arrivano tutti questi soldi? «La gran parte rassicura Hans Christiansen della Divisione finanza dell'Ocse a Parigi proviene da fusioni e acquisizioni di Paesi Ocse.C'è stato il takeover di Telsim da parte della Vodafone britannica, per 4,6 miliardi di dollari, e due altre megatransazioni per l'acquisto di Deniz Bank e Finansbank, rispettivamente dai belgi e dai greci per una somma totale di altri 4,6 miliardi di dollari». Investimenti che riflettono il forte interesse dei capitali stranieri per un mercato aperto, con una corporate governance rimessa a nuovo e una politica aperta alla competizione e attenta alla stabilizzazione macroeconomica.
Ma quando si prova a chiedere qualcosa di più sull'ammontare dei flussi arabi sul Bosforo le bocche si chiudono nel riserbo tipico dei banchieri e chi parla dice solo: «Francamente non lo so».

Escludendo quindi il cosiddetto "hot money", i soldi che normalmente qualificano gli investimenti finanziari, e concentrandosi piuttosto su quelli diretti si scopre che non ci sono dati disaggregati per "pesare" la finanza islamica nel portentoso pacchetto regalo di flussi stranieri piovuti sulla Turchia l'anno scorso. Da Vienna, il Wiener Institut für Internationale Wirtschaftsvergleiche (wiiw), uno dei maggiori think tank economici per l'area, parla di rilevanti investimenti, nel settore immobiliare e della sanità privata, degli Emirati arabi uniti e dei sauditi, verso l'appetibile mercato turco.

Ma su queste scelte finanziarie dei petrodollari ha pesato anche la presenza di un partito filoislamico al potere in Turchia? Non ci sono conferme. Un banchiere di Istanbul ammette che i ricchi fondi arabi, come il Sadco dell'Arabia saudita, sono molto attivi nel Paese della Mezzaluna (l'immobiliare sul Bosforo fa gola a molti, con i prezzi alle stelle), ma che le quote degli investimenti stranieri islamici in Turchia (per ora) non raggiungono quelle occidentali.

Tolga Ediz, economista di Lehman Brothers, ritiene che la Turchia non rinnoverà un altro accordo stand-by con l'Fmi ma firmerà un «pre-cautionary standby facility», cioè un'intesa per cui il denaro sarà a disposizione, ma la Turchia lo prenderà solo come ultima risorsa. «Anche perché - ammette l'analista - il Fondo ha cessato da tempo di essere un'ancora per il mercato».«Il vero scontro in corso in Turchia prosegue Ediz - non è tra fondi occidentali o islamici, ma tra due settori imprenditoriali turchi: gli emergenti contro i vecchi padroni del vapore, le tigri anatoliche pro Akp contro le antiche famiglie legate establishment laico, ai militari e al Chp o Mhp. In questo scenario, gli imprenditori anatolici rappresentano, paradossalmente, la domanda di cambiamenti economici di tipo liberista, seppure nella conservazione dei valori religiosi». L'eventuale distacco dall'Fmi, «essendo questi ultimi imprenditori più aperti al rischio e alla globalizzazione», non li spaventa, mentre l'arrivo di flussi finanziari arabi li rassicura e li inorgoglisce.

Gli investitori occidentali e i partiti laici, invece, assegnano molta importanza all'Fmi e ai suoi programmi, considerati (come l'accesso alla Ue) il vincolo esterno senza il quale il Paese potrebbe andare alla deriva e perdere la bussola economica e la collocazione strategica. Un timore che condivide Ahmet Akarli, analista di Goldman Sachs: «Il Paese ha bisogno di riforme strutturali e disciplina di bilancio per assicurare una crescita sostenibile e una stabilità dei prezzi: per questo prevedo la necessità di un nuovo programma dell'Fmi nel 2008 come elemento chiave di stabilità nel medio termine, soprattutto guardando alle incertezze e ai rischi globali».

Più cauta Paola Subacchi, economista internazionale di Chatman House, che invita a non drammatizzare:«L'affrancamento dall'Fmi - al momento ancora non completamente visibile non riguarda solo la Turchia, ma tutta l'Asia. Basta guardare la recente proposta dell'Asian Development Bank (Adb) sull'uso delle riserve asiatiche per la creazione di un fondo ad hoc che consentirebbe di sganciarsi dall'Fmi». Ma se la voglia di dire addio al Fondo è una tendenza generale, in Turchia, anche questa scelta si tinge di giallo, anzi di islamico. Con qualche preoccupazione in più per i laici.

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