Myanmar, quasi mezzo secolo di dittatura

di Alberto Annicchiarico

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22 settembre 2007

La ex Birmania - ribattezzata Myanmar - vive sotto dittatura da quarantacinque anni. L'ultimo governo democratico è stato abbattuto nel 1962. Per assurdo, proprio un birmano, U Thant, era allora segretario generale delle Nazioni Unite. Il generale Ne Win governò per quasi 26 anni e impose le «politiche socialiste birmane», con la nazionalizzazione delle industrie, la soppressione dei partiti politici (1964),e la proibizione del libero scambio. Scelte che portarono all'isolamento dal resto del mondo.

Dopo le rivolte studentesche del 1988 il sogno di libere elezioni fu abbattutto dalle fucilate della nuova giunta militare. La Lega nazionale democratica, guidata da Aung San Suu Kyi (leader birmana della democrazia e premio Nobel per la pace nel 1991, da anni agli arresti domiciliari) conseguì una schiacciante vittoria mai riconosciuta dal governo, che tuttora dispone della vita e della morte dei cittadini e ha definitivamente cambiato i connotati al Paese asiatico. A cominciare dalla toponomastica, quasi a incoraggiare la distrazione dell'Occidente, di solito più attento ai rovesci politici in aree calde del pianeta: l'area non è affatto priva di interesse dal punto di vista delle risorse, a cominciare dalle riserve energetiche.

Nel 1989 la Birmania, che oggi conta oltre 50 milioni di abitanti, è così diventata Myanmar (nome riconosciuto dall'Italia, non da Stati Uniti e Gran Bretagna, l'Unione europea li usa entrambi). La capitale Rangoon è stata ribattezzata Yangon. Decisioni prese anche nel tentativo di ingraziarsi le minoranze etniche Karen (7%)e Shan (9%), che apprezzavano maggiormente la nuova denominazione al contrario della maggioranza Bamar (70%). Da due anni Yangon - 5 milioni di abitanti - non è più capitale, titolo passato alla piccola Naypyidaw, 100 mila abitanti.

Uno degli snodi cruciali è, comunque, la parte del leone nei rapporti di interscambio commerciale la fa il vicino più influente, la Cina. Pechino sinora non si è mai mostrata insofferente nei confronti dei generali birmani, anche se la vicinanza con l'appuntamento delle Olimpiadi, nel 2008, potrebbe spingere il Dragone a mutare atteggiamento per non sfigurare di fornte al mondo.

Quanto a Onu e Stati Uniti, solo di recente, hanno aumentato le pressioni sul governo per ottenere almeno la liberazione di Aung San Suu Kyi, che commossa sabato ha visto sfilare il corteo di monaci davanti alla sua casa. Suu Kyi, 62 anni, è uscita in compagnia di due donne, e si è messa a piangere, salutando i monaci fra i quali alcuni sono scoppiati in singhiozzi, secondo alcune fonti. Sotto la pioggia, i buddhisti sono rimasti davanti alla residenza della leader dell'opposizione per una quindicina di minuti, recitando la preghiera: «Che noi possiamo essere completamente liberi da tutti i pericoli, da tutti i dolori, dalla povertà e che la pace regni nei nostri cuori e nel nostro spirito».

Questa volta, insomma, pare che i religiosi siano decisi a rischiare tutto, dal momento che hanno annunciato di volere andare avanti fino alla caduta del regime. Ha colpito l'atteggiamento di sfida e di rifiuto delle offerte dei poliziotti: i monaci, che secondo una tradizione di 2.500 anni attraversano in fila indiana le città e i villaggi per la questua, hanno tenuto rivolte verso il basso le ciotole dove viene posto il cibo. Praticamente, una scomunica. Basterà questo a fare crollare una tra le più feroci dittature mai viste sul pianeta e a rappresentare il punto di non ritorno della rivoluzione zafferano (il colore delle tonache)?

La Birmania è tra i paesi con la maggior percentuale di buddhisti, che sfiora il 90 per cento. I gruppi etnici che lo praticano sono Birmani (Bamar), Shan, Karen, Cinesi e Rakhine. Il 5% della popolazione è cristiano, principalmente protestante. Il cattolicesimo, che è stato diffuso limitatamente da alcuni missionari, è praticato dall'1% della popolazione. Il restante 4% è diviso fra islam sunnita e induismo.

22 settembre 2007
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