Come dice il proverbio «non tutto il male viene per nuocere», e così l’attacco terroristico di martedi mattina contro l’ambasciata americana a Damasco, sventato dalle forze siriane, potrebbe favorire un’improvvisa distensione tra Stati Uniti e Siria, dopo anni sull’orlo del baratro. I primi segnali da Washington sono positivi. Eppure, poche settimane fa, sembrava che gli Usa premessero (ma senza esito) perché Israele, dopo il Libano, attaccasse anche la Siria.
Una vera distensione Usa–Siria sarebbe un colpo di scena clamoroso, il segnale di una svolta radicale nella politica americana in Medio Oriente, e dunque del possibile declino dei neocon, che propongono una lunga guerra per ridisegnare la carta politica della regione con «cambiamenti di regime» e con lo smembramento degli stati islamici, arabi e no, in entità più piccole, su basi etniche e religiose. In effetti, per gli Stati Uniti le cose non vanno gran che bene. L’Iraq è un inferno. In Afghanistan, la situazione peggiora rapidamente. Il presidente pachistano Pervez Musharraf dice che oggi i Taleban sono assai più pericolosi di al-Qaida. Inoltre, l’Iran non cede alle pressioni americane e, anzi, sta rafforzando la sua posizione internazionale. Altrove in Medio Oriente, il prestigio americano è molto compromesso, anche per l’incondizionato appoggio a Israele e la politica punitiva contro i palestinesi. Infine, la guerra israeliana in Libano, che doveva annientare gli Hezbollah e soprattutto intimidire la Siria e l’Iran, è stata un insuccesso politico per Israele, e di conseguenza anche per gli Usa.
In Israele, alcuni, tra cui il ministro della Difesa Amir Peretz, hanno già accennato ad un possibile dialogo con la Siria, anche se il premier Ehud Olmert, per ora, ha detto di no. Eppure, la Siria è un partner necessario, e probabilmente disponibile, per una politica volta a stabilizzare il Libano, anche con la partecipazione di potenze europee, tra cui l’Italia e la Francia. Inoltre, il triangolo «Siria, Hezbollah, Iran» non è un vero blocco politico-strategico come spesso viene presentato.
Verso la Siria, gli Usa hanno seguito negli ultimi anni una linea dura e minacciosa, contraria ai loro stessi interessi. Subito dopo l’11 settembre, la Siria collaborò con gli Stati Uniti alla «guerra contro il terrorismo» e, stando agli esperti, il suo contributo fu molto importante, anche se a volte impresentabile, come nel caso della tortura di sospetti terroristi, catturati dagli americani e dati in mano ai siriani. Anche l’Iran, bisogna dire, sostenne, in vario modo, la campagna americana in Afghanistan. Poi, la linea di Washington mutò radicalmente, escludendo qualsiasi possibilità di distensione, sia con Damasco sia con Teheran. In effetti, la distruzione del regime siriano, e di fatto della stessa Siria, sembra uno degli obiettivi prioritari dei neocon, dentro e fuori l’amministrazione Bush.
Oggi, però, i rapporti tra i due potrebbero migliorare rapidamente e significativamente. E lo stesso vale per Siria e Israele, che sono già stati vicini, prima nel 1996 e poi nel 2000, a firmare una pace definitiva. Da allora, la Siria ha sempre detto di considerare la pace con Israele come una «scelta strategica». Dunque, il fallito attentato di Damasco, diretto contro gli Stati Uniti ma anche contro la stessa Siria, può essere l’occasione buona per una svolta di grande portata nella politica mediorientale.
Quanto all’attentato, non è facile capire chi davvero l’abbia ordito (al Qaida o qualcun altro?) e con quali scopi politici. Se l’azione fosse riuscita davvero, avrebbe forse spinto gli Usa ad una politica ancor più dura verso la Siria, con eventuali ritorsioni anche militari. E molti potevano avere interesse ad un tale esito: un grave attentato anti-Usa che facesse ricadere la colpa sulla Siria. Tuttavia, la dinamica stessa dell’operazione non fa escludere l’ipotesi che forse gli scopi erano relativamente limitati, e che si trattava di una sorta di avvertimento. Comunque, accusare al Qaida, o altri generici estremisti islamici, può far comodo sia a Damasco sia a Washington.