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Tra imprese e politica un confronto aperto e leale

di Alberto Orioli

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25 maggio 2007

Un intervento schietto, a tratti abrasivo, del presidente della Confindustria sui mali della politica non significa — come paventavano alcuni — che Luca Cordero di Montezemolo abbia lanciato un'Opa sul Governo. O sulla stessa politica. È l'establishment dei partiti a forzarne le interpretazioni. E, nel farlo, ammette due debolezze: la fragilità del consenso in questo bipolarismo rimasto immaturo e l'incapacità di autoriforma di un sistema pubblico che ha moltiplicato — in uno stato di infinita surplace — cariche, prebende e potere autoportante e autoreferenziale.
Quella di Montezemolo è stata innanzitutto una presa d'atto, per conto di cittadini-imprenditori-contribuenti, che la politica trasformata in mestiere è diventata una zavorra, prima ancora che per l'economia, per la democrazia stessa. Quindi per tutti. Soprattutto perché — come ha concordato anche Pier Luigi Bersani — la democrazia è decisione, non solo partecipazione, tanto più se la partecipazione degenera (si partecipa, ma non si fa). Ma si sbaglierebbe a voler leggere la volontà dell'impresa di sostituirsi al mondo della politica. Montezemolo non è andato oltre una chiamata collegiale a un nuovo senso, più alto, di responsabilità individuale e collettiva. All'urgenza di colmare un vuoto morale, di valori. È l'allarme dell'impresa che tutto chiede tranne che un Paese fai-da-te, squilibrato, incivile.
La relazione di ieri ha marcato distorsioni e difetti di una fase trascinata da tempo, non necessariamente attribuibile a questo o quello schieramento. Ne è emersa una non usuale — almeno finora — consapevolezza di quale sia il ruolo di un attore sociale in una democrazia moderna: il protagonismo nella selezione della classe dirigente, nelle scelta delle priorità, nelle forme di partecipazione.
Nel riconoscere proprio alla politica un senso alto della missione pubblica, Montezemolo ne ha sanzionato ogni nevrosi. E, più elencava assurdità e paradossi, più il volto del premier Romano Prodi sorrideva beffardo. Dirà poi, uscendo, che Montezemolo«si commenta da sé». Il centrodestra a caldo dirà ancora meno.

Un'analisi così diretta, così esplicita crea scompiglio in più direzioni: nel nascente Partito democratico che sente l'impaccio di dover rispondere — in tempi peraltro lunghi — esplicitando la reale portata dei suoi contenuti riformisti; nell'area della Casa delle libertà perché teme lo scippo di alcuni valori-chiave e la volontà di spaccare il blocco del centro-destra. Resta nell'aria un vago entusiasmo neo-centrista, per ora un po' strumentale e dai contorni ancora incerti.
Tra le grisaglie del parterre girava una battuta:«È il discorso del nostro Nicolas Montezemoly ». E, se proprio si voleva leggerlo come un manifesto pre-politico, spunti neanche troppo velati ce n'erano. La valorizzazione dei talenti e del merito come garanzia di equità sociale, la sicurezza come presupposto per lo sviluppo civile soprattutto al Sud, la scuola come motore dell'innovazione, le riforme istituzionali (dalla legge elettorale al premierato) come modo per stabilizzare il Paese. Eppoi sortite ad effetto come la proposta di un business plan per abolire le province, l'indignazione per gli ex terroristi ora opinionisti, lo scandalo umiliante della spazzatura in Campania. Ma il cuore è stata la denuncia di un ceto politico da 180mila eletti con un costo da 4 miliardi. Il rischio di una deriva anti-politica e qualunquista era ben presente allo stesso leader degli industriali che ha tenuto a smentire: non si tratta di anti-politica, ma di altra (o alta) politica. Non ideologica, ma caratterizzata da un forte senso della cosa pubblica e non dell'interesse meschino. Quella politica che rimanda a un concetto diverso di comunità nazionale, delle libertà individuali e collettive, temi più volte echeggiati anche nella campagna elettorale di Sarkozy.
Ma se sia o meno il preannuncio di una vera discesa in campo resta per ora balocco da gossip. Anche se è evidente che una così netta analisi dello stallo politico ha legittimamente posto qualche interrogativo sul futuro del leader degli imprenditori italiani. Sta tuttavia nelle corde dell'impresa denunciare i mali del Paese politico. Non foss'altro che per un fatto di business: in fin dei conti, nel prezzo finale di un prodotto manifatturiero c'è una quota di extracosto da burocrazia o da carenze logistiche e infrastrutturali di qualche punto percentuale. L'euro ha portato l'Italia nel caldo rifugio dei tassi bassi e dell'inflazione di poco più di un punto. Anche l'industria considerata matura ha rialzato la testa; l'export è in espansione. Resta solo da recuperare la competitività della parte pubblica del Paese. Che è, per sua stessa natura, la politica o grande parte di essa.
E bene ha fatto il ministro Bersani a cogliere la sfida, in un intervento difficile, per le condizioni, diciamo così, ambientali "sfavorevoli", mostrando vari punti di convergenza. Il primo dei quali è stato l'orgoglio di appartenere a un Paese, certamente anomalo, ma che sa stare nel mondo con un certo senso di sé, della propria storia e della propria eccellenza. Bersani ha detto alle imprese: dateci fiducia. Dal cuneo fiscale alle liberalizzazioni c'è stato e ci sarà un terreno di dialogo proficuo. Ed è auspicabile che si ampli anche ad altri temi, dalle pensioni ai costi della politica. È un tema sentito, di popolo. Rispondere con stizza o con l'arroccamento (o, peggio, consumando il dibattito solo su Montezemolo politico sì o no) porterebbe ad ampliare quel particolarissimo apartheid italiano: la politica nel Palazzo, il Paese nella realtà.

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