La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo». Così recita l'articolo 11 delle "preleggi", stabilendo un tipico principio generale, che però, essendo posto da una legge ordinaria, può essere derogato da una legge successiva, la quale si auto-attribuisca un effetto anche per il passato. Ecco perché affermazioni simili, contenute in altre leggi – come lo «statuto dei diritti dei contribuenti» (legge n. 212 del 2000, art. 3) secondo cui le leggi tributarie «non hanno effetto retroattivo» – sono a loro volta derogabili, sia pure solo in modo espresso. E infatti sono numerose le disposizioni in materia tributaria che, «in deroga all'art. 3 della legge n. 212 del 2000», attribuiscono a se medesime efficacia retroattiva.
La Costituzione non ha nulla da dire in proposito? La giurisprudenza della Corte costituzionale è costante nell'affermare che un divieto totale e inderogabile di retroattività vale solo per le leggi che stabiliscono nuovi reati o pene più severe. In materia penale la Costituzione (art. 25) è infatti drastica nell'affermare che «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».
Questo però non significa che, fuori dalla materia penale (e quindi anche in campo tribu-tario, salve le eventuali sanzioni penali connesse) il legislatore possa sempre liberamente derogare al principio dell'irretroattività. Da tempo la Corte costituzionale ha affermato che l'irretroattività delle leggi, in materia diversa da quella penale, pur non essendo un principio sempre inderogabile, «rappresenta pur sempre una regola essenziale del sistema a cui, salva un'effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini»: onde «le leggi retroattive sono soggette al generale sindacato di ragionevolezza anche per quanto riguarda l'effetto (retroattivo) suindicato » (sent. n. 155 del 1990).
Ci sono – ha affermato sempre la Corte – altri principi costituzionali il cui operare può in concreto precludere al legislatore la facoltà di disporre retroattivamente: fra questi l'"affidamento" dei cittadini nella certezza e nella stabilità dei diritti che loro spettano.
Quando può dirsi non irragionevole, cioè fornito di «un'effettiva causa giustificatrice », il ricorso a disposizioni legislative retroattive? Le circostanze possono essere varie. Per esempio, se il Parlamento constata che una legge da esso approvata, per difetto di chiarezza e di univocità, viene applicata di fatto in modo difforme da quello che era il senso che ad essa si era voluto attribuire , può correre ai ripari con una legge di "interpretazione autentica", che vincola tutti e anche i giudici ad applicare la nuova regola anche ai rapporti pregressi non ancora esauriti. Tuttavia, pure in questi casi, il limite della ragionevolezza e della salvaguardia del legittimo affidamento dei cittadini va rispettato, come in ogni caso di legislazione retroattiva, e quindi è comunque illegittimo introdurre sotto le vesti di una "interpretazione autentica" una regola nuova e diversa per nulla riconducibile alla legge preesistente.
In materia tributaria i maggiori limiti riguardano naturalmente la retroattività "contro" il contribuente: quella in suo favore è di solito ammessa, anche se non sempre è giusta (si pensi ai vari condoni fiscali che premiano a posteriori l'evasione e la incentivano quindi per il futuro). Quello che occorre sempre rispettare è il principio costituzionale per cui l'imposizione deve fondarsi su elementi concreti di "capacità contributiva" facenti capo agli obbligati. Onde non sarebbe costituzionalmente legittimo colpire oggi, con un tributo di nuova introduzione, una capacità contributiva ormai non più attuale, per esempio perché è trascorso un lasso di tempo troppo lungo fra il momento in cui è venuto in essere il presupposto economico dell'imposizione e il momento in cui il prelievo viene imposto. Può non essere illegittima, invece, una regola impositiva che sopravviene quando il fatto- indice di capacità contributiva è tuttora attuale, e l'intervento ha magari il fine di combattere fenomeni elusivi o di evitare distorsioni applicative. Lo statuto dei diritti del contribuente va oltre la Costituzione (e per questo è derogabile): stabilisce un principio generale di irretroattività delle disposizioni tributarie, cui aggiunge quello secondo cui «relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono»; e ancora, fra l'altro, l'obbligo di assegnare termini minimi per i nuovi adempimenti, il divieto di prorogare i termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti, e perfino il divieto di disporre con decreto legge l'istituzione di tributi o la loro estensione ad altri soggetti. Uno "statuto" che può magari apparire per alcuni aspetti un po' ambizioso rispetto alla situazione e alle abitudini dei nostri Governi e della nostra amministrazione (è il solito nostro vizio di fare belle leggi, ma poi di non appli-carle), ma che bene esprime quel "cardine della convivenza civile" che è costituito dalla certezza dei rapporti pregressi e dall'affidamento dei cittadini. Esso è in realtà espressione di un modello ideale di rapporti fra cittadini e amministrazione, che deve essere costantemente perseguito, fondato sulla reciproca lealtà: da una parte cittadini che non si sottraggono ai loro doveri collettivi sanciti dalla legge,con l'evasione nelle sue varie forme; dall'altra un'amministrazione che non perseguita i cittadini con sempre nuovi oneri sostanziali e procedurali e con atteggiamenti di pregiudiziale sospetto, ma li aiuta, con l'equità dell'imposizione, la chiarezza delle norme, la semplicità e la riduzione degli adempimenti, a compiere il loro dovere tributario nell'osservanza della legge e solo di quella.