Passata la burrasca che ha contrassegnato gli ultimi esercizi economici, la tanto conclamata ripresa si traduce pure in un netto miglioramento della proiezione delle nostre imprese sui mercati esteri, nel segno di quella internazionalizzazione che ha ormai soppiantato con decisione i processi di delocalizzazione produttiva. Tale definitivo passaggio, di portata quasi storica, è confermato pure dalle opinioni degli imprenditori interpellati, secondo i quali i propri rapporti con l'estero rispondono oggi prevalentemente all'esigenza di presidiare nuovi mercati strategici (49,5%) più che di contenere i costi di produzione (25,4%).
Ben il 47% dei rispondenti ha dichiarato di intrattenere rapporti con soggetti posti al di fuori dei confini nazionali, un dato che – secondo la serie storica – sfiora il record assoluto raggiunto nel 2002, agli inizi cioè dei processi di trasformazione che hanno interessato in questi anni una fetta cospicua delle aziende della nostra penisola. Tale performance illustra come il ceto imprenditoriale del Bel Paese abbia saputo, di recente, individuare ed implementare un mix di strategie consono a sostenere la sfida portata dai nuovi competitors globali e a ritornare ad affacciarsi con grinta e determinazione nell'arena internazionale.
L'esportazione di beni e servizi (42,2%) rimane, ad oggi, lo strumento prioritario cui le aziende italiane ricorrono per operare al di fuori dei confini nazionali. I dati ufficiali sull'interscambio con l'estero, in particolare quelli afferenti l'export, confermano la bontà di tale scelta e il ritorno di molte aziende sui mercati internazionali dopo un periodo contrassegnato da qualche difficoltà. Ciò non di meno, prosegue la propria crescita pure il ricorso a fornitori stranieri, i quali peraltro continuano a proporsi quale soggetto complementare – e non alternativo – a quelli locali. Infatti, il 55,3% di coloro che hanno esteso la propria rete di fornitura al di là dei nostri confini non nasconde come tale scelta non abbia in alcun modo determinato un ridimensionamento delle relazioni esistenti sul proprio territorio di origine e, segnatamente, una perdita di commissioni per gli attori locali.
Un ulteriore segnale che conferma la crescente capacità delle nostre imprese di recuperare terreno nell'agone internazionale è reso disponibile dai dati afferenti il ricorso a strategie di internazionalizzazione più strutturate e complesse. Sia la creazione di joint ventures con partner stranieri che l'apertura di strutture produttive create ex novo risultano in leggera crescita e segnano record assoluti (rispettivamente 7,8 e 4,8%) nella storia, peraltro ancora abbastanza recente, della nostra indagine.
In realtà, gli stimoli più interessanti alla nostra riflessione giungono dalla lettura e analisi dei dati disaggregati in funzione della classe dimensionale di appartenenza. Un ingente recupero nella propria capacità di presidiare e penetrare i mercati internazionali, infatti, si riscontra tra le piccole e medie aziende, quei medesimi soggetti – cioè – che negli anni scorsi erano parsi scontare le maggiori difficoltà nel trovare soluzioni per rispondere alle sfide portate dalle economie emergenti e alla loro aggressività commerciale. Se andiamo a calcolare il saldo su base annua per ciascuna delle strategie proposte, possiamo notare un incremento dell'ordine di 4-5 punti percentuali, a testimonianza di come talune piccole imprese siano state, per così dire, "trascinate", o quantomeno spinte dai propri clienti e committenti ad uscire dalla sfera del locale per raccogliere il guanto di sfida della competizione globale.
Tale considerazione, unita a quanto si è già detto in precedenza al riguardo dei rapporti con i subfornitori locali, ben si innesta nella tesi secondo cui i processi di internazionalizzazione non sono solo ineludibili, ma anche non paiono destinati a generare un qualche impoverimento del tessuto produttivo del nostro Paese. E, del resto, il 96,4% di coloro che ad oggi realizzano parte della propria produzione oltre i confini nazionali non ha chiuso le strutture storiche presenti in Italia.
Di certo, talune scelte – quali l'apertura di uno stabilimento produttivo all'estero – rimangono al di fuori della portata delle piccole aziende e rappresentano una possibilità strategica soprattutto per i soggetti più strutturati e solidi (27% tra le imprese con oltre 100 addetti). Ciò nonostante, non possiamo non segnalare la tendenza, da parte delle aziende cosiddette leader, a fare da testa di ponte, quando non da autentico stimolo per una più sensibile internazionalizzazione anche dei "piccoli".
Da ultimo, diamo uno sguardo ai dati elaborati in funzione delle principali aree territoriali di cui si compone il nostro Paese. Un elemento balza subito alla nostra attenzione: secondo una tendenza che si era in parte già avviata lo scorso anno, il Nord Ovest si propone quale territorio leader nell'interazione con i mercati internazionali, a danno del Nord Est, area da tradizione vocata all'internazionalizzazione anche in ragione della propria peculiare posizione geografica, di porta aperta verso l'Europa centro-orientale e i Balcani. Lo scarto tra le due realtà territoriali inizia a farsi abbastanza ampio (oltre 6 punti percentuali) e permane per tutte le tipologie di azione considerate.
In sintesi, dopo un periodo di riorganizzazione interna e di ripensamento del proprio posizionamento sul mercato, le aziende del nostro Paese – in particolare quelle di stanza nella fascia settentrionale – paiono aver recuperato posizioni nel contesto dell'economia globale. Il segnale che induce ad un maggiore ottimismo, ma non rilassamento, è dato dal recupero/ritorno delle aziende più piccole, a testimonianza di un percorso di internazionalizzazione che può e deve riguardare il Sistema Paese nella sua interezza.