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Non è tutta colpa dei biocombustibili

di Alessandro Merli

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29 Aprile 2008


Salutati fino a pochi mesi fa come l'alternativa verde agli idrocarburi e l'arma per contrastare il boom dei prezzi petroliferi e la dipendenza da Paesi produttori instabili o antidemocratici, i biocombustibili sono diventati in un batter d'occhio un flagello da evitare. Addirittura «un crimine contro l'umanità» come ha sentenziato ieri a Berna l'esperto dell'Onu, Jean Ziegler. La loro colpa è di competere con le produzioni alimentari per l'uso di scarsi terreni agricoli e di far esplodere i prezzi delle materie prime, affamando intere popolazioni.
L'evidenza dei fatti non supporta forse l'entusiasmo originario, ma cero non la condanna attuale. Anzitutto, il balzo dei prezzi agricoli è legato in parte non trascurabile al calo del dollaro, la valuta nella quale sono espresse le quotazioni, e al rincaro del petrolio, l'input più importante nella produzione attraverso il costo dei fertilizzanti e dei trasporti, oltre che a fattori climatici non transitori (la siccità in Australia).
Inoltre, anche se in crescita rapida, la domanda per uso energetico rappresenta per ora una percentuale molto modesta, rispetto a quella destinata ad alimentari e mangimi, dell'aumento della domanda complessiva di materie prime agricole, e questa è legata soprattutto alla crescita della popolazione e della ricchezza nei Paesi emergenti, dove si stanno modificando le abitudini alimentari. Le risorse energetiche non convenzionali rappresentano poi appena il 10% del mercato globale e di queste solo un quarto sono etanolo e altri biocombustibili.
Tutta la discussione, tuttavia, è viziata dal fatto che ci si dimentica completamente che, come per il colesterolo, c'è l'etanolo buono e l'etanolo cattivo, come sostiene Sir David King, ex consulente scientifico del Governo britannico. Il pioniere nella produzione di etanolo (e il secondo produttore mondiale dopo gli Usa) è il Brasile, che produce alcool dalla canna da zucchero.
La sua resa, secondo cifre della Goldman Sachs, è di oltre otto "unità" di energia ogni una impiegata nella produzione, oltre a ridurre di oltre l'80% le emissioni di ossido di carbonio rispetto a benzina e gasolio. Al confronto, l'etanolo prodotto dal mais negli Stati Uniti non solo è meno ecologico, ma arriva appena a una volta e mezzo l'energia consumata per produrlo. Per ottenere etanolo dal grano, come si fa in Europa in base ad alcuni schemi promossi anche dalla Ue, la resa energetica è più o meno pari all'input: vale a dire si estrae dal processo produttivo non molto di più di quello che si immette. Negli Stati Uniti e in Europa (dove si produce etanolo, fra l'altro, anche da barbabietole e colza), il processo è anche antieconomico e si regge solo sull'erogazione di forti sussidi pubblici.
Il sospetto è che in questi Paesi l'etanolo fosse divenuto improvvisamente così popolare fra i politici anche perché consentiva di aprire un altro canale per foraggiare la potente lobby agricola. Il presidente americano George Bush ne è divenuto un sostenitore per ragioni geopolitiche, per allentare la dipendenza Usa dal petrolio mediorientale. Così negli Usa, l'utilizzo del mais per l'etanolo viene promosso non solo con i sussidi, ma anche con barriere all'import e alti dazi sull'etanolo brasiliano. Dopo un incontro con Bush, il presidente del Paese latinoamericano, Luiz Inacio Lula da Silva, ha affermato che sull'etanolo Brasile e Stati Uniti dovevano trovato "il punto G" delle loro relazioni. L'eccitazione evidentemente non è stata abbastanza travolgente perché Washington eliminasse i dazi.
L'unica alternativa sostenibile all'etanolo ricavato dalla canna da zucchero potrebbe essere quello di origine cellulosica, che utilizzi per esempio scarti della lavorazione del legno o paglia, il cosiddetto etanolo di seconda generazione: la tecnologia per sfruttarlo commercialmente però, nonostante sia allo studio da tempo, ancora non esiste.
Tra le altre accuse rivolte all'etanolo c'è quella di contribuire alla distruzione della foresta amazzonica e della foresta pluviale in Indonesia per ricavare terreni da piantare a canna. Si dà il caso che in Brasile, come ricorda ancora King, la canna venga coltivata ben lontano dalla foresta amazzonica (la cui distruzione prosegue da decenni ma non è legata all'etanolo). Anzi, il modello brasiliano potrebbe essere trapiantato (e si comincia a farlo) in altri Paesi, soprattutto dell'Africa, dove ci sono condizioni geologiche e climatiche simili, utilizzando terreni finora incolti e creando in questo modo una risorsa importante per alcune delle economie più povere del mondo. Certo, bisognerebbe che a quel punto i Paesi avanzati abbandonassero sussidi e protezionismo, il che non pare sia imminente. Intanto, si pensa a tagliare la produzione di biocarburanti, il che farebbe fare un altro balzo al prezzo del petrolio, e questo sì spingerebbe al rialzo i prezzi agricoli.

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