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SPECIALE ELEZIONI 2008
Tremonti: «Rilanciamo il nucleare con centrali oltre Adriatico»
di Alberto Orioli

Giulio Tremonti«Finora abbiamo delocalizzato il lavoro, perché ora non delocalizziamo il nucleare per localizzare il lavoro? ». Giulio Tremonti, 60 anni, ministro dell'Economia del Governo Berlusconi se il Pdl vincerà le elezioni, affronta il tema dell'energia con uno dei suoi celebri giochi di parole. Ma l'analisi parte da lontano: «La strategia delle riforme negli anni ha perso il suo effetto magico. Una volta bastava dire la parola riforma, adesso non è più così. Rischia anzi l'effetto opposto. In ogni caso, chiamiamole come vogliamo, ci sono due direttrici principali su cui muovere: una istituzionale, l'altra infrastrutturale».


Cominciamo da quella istituzionale.
In un libro scritto nel lontano 1992 con Giuseppe Vitaletti e intitolato «La fiera delle tasse »si ragionava sul valore economico del territorio. Si sosteneva una tesi per quei tempi visionaria: in un mondo radicalmente diverso non devi conquistare il territorio degli altri per conquistare la ricchezza degli altri, ma devi attrezzare il tuo territorio per attrarre la ricchezza. Si è rovesciata l'idea della guerra che aveva Tucidide o l'idea dello spazio che aveva Hitler: la "guerra-guerra" è stata sostituita dalla " guerra civile", dalla "guerra-competizione". Per fare la nuova guerra è necessario attrezzare il proprio territorio con istituzioni attrattative. In Italia, purtroppo, il percorso fatto è a rovescio e il simbolo di questa inversione, che ha portato a riforme suicide, è il nuovo Titolo V della Costituzione che ricordo solo per pura memoria storica –è stato fatto nel 2000-2001 dalla sinistra, voluto dalla sinistra, votato dalla sinistra. Mentre il mondo accelerava, l'Italia si fermava. Siamo l'unico Paese in cui,per Costituzione,le infrastrutture di interesse nazionale – come i trasporti o l'energia sono di competenza concorrente regionale. Un conto è sentire i territori, un conto è dare loro diritto di veto. Nel 2006 la nostra riforma nazionalizzava questa competenza, ma è stata bocciata dalla sinistra. Ora è positivo registrare un loro ripensamento, ma abbiamo perso sette anni.


Come si recuperano?
In Parlamento c'è un semi-lavorato che è un buon testo di partenza per le modifiche co-stituzionali: la bozza Violante, discussa in Aula in dialettica costruttiva tra maggioranza e opposizione. Si può ripartire da qui senza porre altro tempo in mezzo.


Parliamo delle riforme per le infrastrutture.
È chiaro che se hai un sistema istituzionale che segmenta in modo suicida il processo di decisione politica sulle infrastrutture, alla fine della pipeline le infrastrutture non vengono fuori. Le infrastrutture sono tutte utili e fondamentali anche una è la priorità delle priorità: l'infrastruttura energetica. Se vedi l'Italia da fuori noti due anomalie:l'alto debito pubblico, l'alto debito energetico su cui noi paghiamo una bolletta energetica di 30 miliardi che vanno all'estero. Un fatto che spiazza l'industria e penalizza la domanda con un effetto di impoverimento della struttura produttiva e sociale italiana.


Dunque energie alternative o nucleare.
Certamente strumenti come i doppi vetri o i mulini a vento o i pannelli solari hanno una funzione e sono necessari in contesti specifici e per fini specifici, ma non sono sufficienti. Nel futuro di lungo andare ci sono due ipotesi, forse tra di loro non in alternativa: il solare o l'idrogeno.Ma tra lo stato di necessità attuale e l'eventuale futuro radioso c'è un intervallo, diciamo di medio periodo, colmabile solo con il nucleare. È la tendenza del mondo e dell'Europa: si investe nel nucleare di nuova generazione per guadagnare un margine ottimale su questa fonte che è ancora più vantaggioso se si parte da zero come nel caso italiano.


Ma i tempi sono comunque lunghissimi.
Distinguiamo tra tempi tecnici e tempi politici. I tempi tecnici sono sempre più corti, sono i tempi politici –per acquisire il consenso democratico, per avere le autorizzazioni– che sono rimasti lunghi.


In Italia poi pesa il veto del vecchio referendum.
Il paradosso dell'Italia è che abbiamo la tecnologia, i capitali ma, per una bizzarra storia politica, anche una forte refrattarietà industriale. Refrattarietà che si è cristallizzata in un referendum presentato come alternativa secca: "Volete una nuova Cernobyl? Sì o no, barrare la casella". Finora abbiamo delocalizzato il lavoro, ora possiamo delocalizzare il nucleare per rilocalizzare il lavoro.

Quale lavoro?
Se l'industria paga meno l'energia aumenta la competitività, quindi anche la produttività che può anche essere redistribuita al fattore lavoro. Si toglie così la tassa energetica, la prima tassa da ridurre sia per le imprese sia per le famiglie.


Torniamo al nucleare.
La informazioni che girano nei circoli internazionali che mi capita di frequentare segnalano una disponibilità nell'altra sponda dell'Adriatico a fare joint venture nucleari con l'Italia. Mi risulta che ci siano tutti i presupposti geopolitici per un successo.


Ma di quali Paesi parla? Albania, Montenegro?
È ancora presto e non sarebbe corretto fare un elenco, ma ipotesi come quelle che ha fatto lei, e altre ancora, negli ambienti qualificati internazionali vengono considerate possibili, anzi consigliate. Naturalmente il patto è che parte dell'aumento del Pil deve restare nei Paesi di origine. Loro avrebbero grandi difficoltà tecnologiche a creare le centrali, noi abbiamo il know how: in una logica di joint venture i tempi politici e amministrativi sarebbero ridotti.


Ma quanto costerebbe?
Ho ragione di ritenere che il costo per i cavi o le infrastrutture di trasporto sottomarine per l'energia elettrica sia perfettamente sostenibile.


Se è così semplice perché finora non siè fatto?
Evidentemente è una forma di pensiero laterale: a volte il pensiero laterale è tropo radicale, a volte no. Semplicemente si tratta di verificarlo. Resta il fatto che è una nostra idea: il Pdl ha la parola nucleare nel programma, il Pd no.


Resta il fatto che il Nobel Rubbia indica nel solare la vera unica fonte alternativa duratura e avverte che, se non ci affrettiamo, saremo superati dagli Usa.
Nel lungo periodo saremo o tutti felici o tutti spiazzati. Nel frattempo è pragmatico mettere in campo qualcosa di intermedio e non può che essere il nucleare.


Sempre per stare a Rubbia un quadrato di specchi solari di 200 chilometri per lato darebbe energia a tutta la terra. È chiaro che se i Grandi del mondo decidessero di finanziare progetti per l'umanità, stile canale di Panama o di Suez, forse si farebbero passi avanti anche in questo campo.
Non sarò certo io a criticare idee anche visionarie, ma non c'è contraddizione tra la suggestione della proposta di Rubbia e la proposta empirica di cui sopra. Sono tra di loro compatibili: una nel lungo, una nel medio andare.


Nel suo libro «La paura e la speranza» lei parla di «lotta per la conservazione o per il dominio delle risorse naturali» poi spiega che quando «la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo di fronte l'imprevedibile, l'irrazionale, l'oscuro, il violento e non sempre il bene.Già altre volte il mondo è stato governato dai demoni ».È lo scenario di una prossima guerra per l'energia?
Google: cambiamenti climatici e sicurezza nazionale. 14 marzo 2008,più o meno mezzo anno dopo il mio libro che è scritto nell'autunno 2007, è il rapporto Solana-Waldner. Si trovano parole come minacce, conflitto per le risorse, danno economico, rischio per le città costiere e le infrastrutture critiche. Perdita del territorio, controversie frontaliere, migrazione provocata da cause ambientali, situazione di fragilità e radicalizzazione,tensioni per l'approvvigionamento energetico e conflitto per l'acqua o per il gas naturale nascosto sotto i ghiacci del Polo Nord. Eppoi ancora inondazioni, deserti che avanzano e spingono milioni di persone a spostarsi, una catena di migrazioni disperate indotte da miseria o da rabbia che potrebbe portare alla destabilizzazione dell'Europa e all'alterazione degli equilibri geostrategici del pianeta. In questi termini la cifra "della paura" è più forte nel Rapporto che non nel mio libro! Si vis pacem para bellum.


La "tecnofinanza" ha fallito: lo dice lei da tempo e ora anche altri. Resta il problema delle regole comuni e delle sanzioni.
Nel '45 Carl Schmitt dal profondo del carcere, sotto il peso delle "colpe giuridiche", leva un monito: silete jureconsulti. Bene,oggi bisogna dire "silete economisti". Nel 2004 ho cominciato a parlare del rischio di una "global Parmalat". Solo ora si parla di perdite, e solo per centinaia di miliardi di dollari. Un errore doppio: non si tratta di perdite (per perdere qualcosa devi avere qualcosa) al tempo T hai un attivo al tempo T+1 lo perdi. Qui è diverso, non c'è stata perdita di quello che si aveva ma invenzione di quello che non si aveva. Per avere una perdita devi avere un attivo, se non hai l'attivo – perché non ce l'hai mai avuto il fenomeno è diverso da quello delle perdite. Il secondo errore è quantitativo: non si parla di centinaia di miliardi ma di trilioni di dollari. Nella storia della finanza c'è stato qualcosa di simile, se pure su scala più ridotta, eppure un tipo di finanza collegato con la globalizzazione di allora. Dall'Europa del ' 700 verso l'America del Nord,in Louisiana: era la tecnofinanza di John Law.


Allora fu un problema di bancarotta, di bolle che scoppiarono, di inflazione impazzita. Problemi simili oggi, 300 anni dopo, ma come se ne esce?
Non credo che bastino le aspirine e non credo che basti chiudere le porte quando i buoi sono già scappati dalla stalla.


Eppure un primo tentativo di arrivarea monitoraggi condivisi c'è stato proprio nell'ultima riunione del Financial stability forum...
Sono preliminari, utili, ma preparatori. Necessari, ma non sufficienti. Serve qualcosa di molto più forte e penso a una nuova Bretton Woods.Un momento politico di altissimo valore simbolico.


Il 2009 sarà l'anno del G8 italiano...
Non credo che Gaeta potrà sostituirsi a Bretton Woods. Si potrà anche tornare a Bretton Woods ma qualcosa di nuovo e di po-litico, per riportare ordine nel caos globale, è fondamentale. Basta andare a vedere, sempre su Google, il Mount Washington Hotel nella parte dedicata alla galleria storica. È impressionante: nel '44 con mezza Europa ancora sotto Hitler c'erano i rappresentanti della Polonia, poi sfortunati, della Cina, dell'India, dell'Australia.Del mondo libero insomma.E poi gli uomini: Morghentau, Keynes e, dietro questi, i capi di Stato e di Governo. Di Governi in carica, di Governi in esilio. Il respiro della politica di un mondo che passava dalla guerra alla pace. Sono fermamente convinto che oggi occorra qualcosa di simile.


Lei parla spesso di un nuovo ruolo del non profit nella gestione dello stato sociale. Un modo per mettere in gioco le fondazioni invece della spesa pubblica?
Nell'ideologia statalista c'è solo la mano pubblica,nell'ideologia mercatista c'è solo la mano privata. In realtà, nella vita, tra il comunismo e le privatizzazioni c'è molto altro. È nelle fasi di crisi che ne avverti il bisogno.


È per questo che dicevano che lei era colbertista?
Era una semplificazione. Vogliamo sprovincializzare? Vogliamo attualizzare?Nel discorso sullo stato dell'economia Obama dice che non esiste solo Wall Street e che esiste anche Main Street, che la via del mercato non è la via principale. Io non faccio graduatorie: sono tutte e due vie importanti, nessuna delle due da sola è sufficiente: il mercato se possibile, ma il governo se necessario. Fa un certo effetto leggere sul Financial Times del 25 marzo che il trionfalismo degli ultimi 30 anni è over, finito, e il mercato non è più la risposta a tutto e non si salva da solo. In ogni caso, quando parlo di ruolo pubblico o di mano pubblica, non intendo necessariamente mano dello Stato o ruolo dello Stato. Il pubblico è un perimetro più grande di quello statale, tutto quello che è statale è, bene o male, pubblico ma non tutto quello che è pubblico è statale. Ha presente il 5 per mille? È pubblico ma non statale; anzi è l'opposto perché disintermedia lo Stato, ma sempre con un fine di interesse di bene pubblico. Per la solidarietà sono i nostri vicini, i nostri amici, le nostre famiglie, le nostre comunità; per la ricerca sono le fondazioni e gli scienziati capaci di raccogliere la fiducia diretta dei cittadini.


E quale ruolo per le fondazioni ex bancarie?
Sono parte di questo universo, ma lei forse vuole sapere come la penso. Penso che lo "scontro politico" che c'è stato qualche anno fa sia servito a tutte e due le parti. Anche, oltre che alla parte politica, alla parte fondazioni: ha isolato, ridotto qualche caso di devianza, ha fatto crescere lo spirito associativo, l'idea di una comune funzione civile delle fondazioni nell'interesse del Paese. La novità è stata nella emersione di un nuovo spirito di comunità non solo locale territoriale, particolare, ma generale. Nell'interesse del Paese.





1 aprile 2008
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