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Intervento / Ritorno al nucleare in un'ottica di lungo periodo

di Alberto Clò

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26 MAGGIO 2008

A venti anni esatti dall'azzeramento di ogni produzione nucleare nel nostro Paese (non già del suo consumo, da allora anzi raddoppiato via importazioni) è possibile e a quali condizioni rientrarvi? È possibile riannodare le fila di un sapere - fummo tra i primi Paesi a entrarvi e i primi a uscirne - che conobbe punte di eccellenza da allora sciaguratamente disperse? È possibile realizzare nuove centrali in un contesto di mercato per abbattere l'enorme svantaggio competitivo di cui soffriamo verso il resto d'Europa? La risposta a tali quesiti è molto ma molto più complessa di quanto emerga da un confuso dibattito teso, ieri come oggi, più a far la conta dei favorevoli e dei contrari che a comprendere se quel che si propone abbia un fondamento e, soprattutto, quali siano le condizioni utili a darvi concreto seguito.

A legittime domande si sono fornite risposte da sponde contrapposte spesso d'altra natura se non costruite sul nulla. È mia opinione - e lo dico certo non da antinuclearista, essendo stato tra i pochi che si batterono duramente contro il referendum del 1987 - che, allo stato delle cose e a disastro compiuto, il rientro nel nucleare per il nostro Paese non possa che realizzarsi in un'ottica di lungo periodo e non come concreta e ravvicinata possibilità di ridurre i costi medi dell'elettricità in modo significativo. Non illudiamoci. A parte il fatto che per ottenerlo bisognerebbe realizzare diverse centrali (almeno 5 da 1.000 MWe per ridurre grosso modo il costo di generazione del 5%, pari al 3% nei prezzi finali) concorrono a impedirlo ragioni di accettabilità sociale e altre, non meno rilevanti, di carattere economico tanto rilevanti quanto trascurate: la logica, le convenienze, i meccanismi di mercato che governano oggi i processi decisori degli agenti economici in campo energetico.

Ed è proprio il mercato, da tutti osannato quando le cose vanno bene e rinnegato in situazioni opposte, che spiega l'innegabile impasse in cui il nucleare si trova. Delle 35 centrali in costruzione nel mondo, appena 5 sono nei Paesi industrializzati. Negli Stati Uniti l'ultimo kWh ordinato (poi non realizzato) risale al 1978, mentre si sono costruite centrali a gas metano per 140mila MWe nei soli anni 90. Idem in Gran Bretagna, che rischia di incorrere in un pesante deficit elettrico se non si realizzeranno investimenti per sostituire entro il 2020 le decrepite centrali nucleari che hanno portato quasi al fallimento British Energy.

Tra il 1970 e il 1990 si sono costruite nel mondo 17 centrali nucleari ogni anno. Dal 1990 al 2005 appena 1,7, per lo più nei Paesi emergenti. Venute meno le condizioni che in passato incentivavano gli investitori (aiuti di Stato, assetti monopolistici, prezzi remunerativi), questi hanno volto il loro interesse là dove i rischi e le incertezze di mercato erano e sono minori; dove i rientri sono molto più rapidi; dove la redditività è superiore (il metano) o addirittura garantita (i lauti sussidi alle mitiche rinnovabili). Morale: le convenienze di mercato disincentivano oggi gli investimenti nel nucleare. Non a caso, l'unica centrale in costruzione in Europa, in Finlandia, è stata realizzata grazie a un modello societario che bypassa il mercato, con una partnership tra produttori e grandi consumatori e l'impegno di questi a ritirare la produzione nell'intera vita della centrale, a prezzi ancorati ai costi remunerati, consentendone la finanziabilità a tassi la metà di quelli altrove praticati.

Conclusione: in passato erano gli Stati che decidevano se ricorrere o meno al nucleare. Oggi è il mercato che orienta le decisioni di investitori e finanziatori. Accapigliarsi sui suoi costi assoluti o relativi ha poco senso perché quel che conta è la valutazione che ne fanno le imprese. Il ruolo degli Stati oggi è altro: garantire certezza dei processi autorizzativi; definire gli standard e i vincoli di sicurezza; concorrere all'individuazione dei siti delle centrali e alle modalità di smaltimento delle scorie; definire le politiche di regolazione dei mercati, specie quelle che interiorizzano le esternalità positive del nucleare, così rafforzandone la convenienza (tramite, ad esempio, carbon credits). La decisione ultima resterà, comunque, degli investitori privati.

Come conciliare logiche di mercato e interessi generali del nucleare (zero emissioni, zero dipendenza estera, costi/prezzi stabili) è l'interrogativo che resta irrisolto da parte dei governi occidentali e dell'Unione europea. Ed è questo che spiega lo stallo degli investimenti che porta l'Agenzia di Parigi (non un covo di antinuclearisti) a stimare (più che prevedere) solo una leggera crescita del nucleare su scala mondiale da qui al 2030, con un calo della sua quota sulla produzione elettrica di 6 punti percentuali al 9%, regredendo così ai livelli di 25 anni fa. Questi sono i numeri nudi e crudi.

Essere realistici, guardando ai fatti, non significa affatto escludere che il nostro Paese debba e possa, in un futuro certo non immediato, riprendere la via del nucleare. Un futuro, comunque, da costruire da subito se lo si vuole davvero. L'orizzonte internazionale è, qui come altrove, l'unica prospettiva con cui farlo: puntando a recuperare e valorizzare il pochissimo sapere che è rimasto; aggregandosi all'altrui impegno di ricerca e di sviluppo; ripartendo, in buona sostanza, da zero. Perché questa prospettiva si traduca in concreta opportunità, recuperando il troppo tempo perduto, è necessario disegnare una chiara, determinata, credibile, coerente strategia di lungo periodo che indichi gli obiettivi che si intendono raggiungere e in che tempo; "chi fa che cosa e come" nel partenariato pubblico-privato; quali risorse finanziarie nel campo della ricerca si intendono impegnare; con quali politiche di regolazione si volgiono favorire investitori e consumatori.
  CONTINUA ...»

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