Oggi la vera emergenza in campo economico per l'Italia è, paradossalmente, quella di non farsi prendere dall'"ansia dell'emergenza", perché c'è il rischio, poi, di dover pagare molto per scelte di politica economica affrettate e legate ad analisi parziali della situazione congiunturale del Paese.
Passata la campagna elettorale, si possono lasciar depositare le polveri sollevate circa le molte catastrofi nazionali e internazionali annunciate o paventate. L'Italia, con la sua bassa crescita, non ha grandi problemi congiunturali in questo momento, non è alle soglie del declino, né è in balia di prossimi cataclismi economici mondiali, ma ha, come altri Paesi, problemi strutturali per un adattamento alle nuove condizioni economiche mondiali che si stanno realizzando in modo troppo lento. In queste condizioni, fare di tutto per aumentare il tasso di crescita, magari premendo sulla domanda interna, attraverso riduzioni di tasse e/o aumenti di spesa pubblica, sarebbe un'operazione vana e pericolosa, perché potrebbe causare nuovi squilibri di finanza pubblica e di inflazione, senza realizzare l'aspirata maggiore crescita economica.
Andiamo con ordine. La bassa crescita italiana di questo ultimo decennio è dovuta essenzialmente a un processo di progressivo adattamento della nostra struttura produttiva alle nuove condizioni economiche dei mercati mondiali. In tempi relativamente brevi, dato l'irrompere della globalizzazione, le nostre imprese si sono dovute reinventare, spostando le loro produzioni verso la gamma più elevata, personalizzando le produzioni per i clienti, caricando di servizi le loro produzioni, modificando processi produttivi, delocalizzando alcune produzioni e anche spostandosi verso prodotti nuovi. Questo fenomeno ha messo del tempo a manifestarsi e ha riguardato in modo diseguale il Paese. Esso appare oggi evidente per l'industria manifatturiera (anche se era intuibile già nei primi anni del decennio per chi voleva vederlo), settore che sta mettendo in evidenza risultati particolarmente positivi nelle esportazioni.
Esso è visibile in alcuni comparti dei servizi (come la finanza e alcuni servizi alle imprese), ma è lento ad affermarsi in quelle attività più protette dalla concorrenza internazionale (come i trasporti, i servizi alle persone e tutta la gamma dei servizi pubblici e della pubblica amministrazione), dove tuttavia stanno avvenendo comunque dei processi di progressivo adattamento. Ecco allora che la bassa crescita del Paese (che forse non è così bassa come le statistiche ufficiali indicano e come molti segnali lasciano intendere) non è una bassa crescita di tutte le attività, ma è la risultante composita di imprese che crescono e di attività che tardano ad adattarsi.
In queste condizioni, una politica che tentasse di rilanciare la domanda interna, ad esempio attraverso una riduzione delle tasse, non genererebbe maggiore crescita economica ma determinerebbe maggiori importazioni, con squilibri nella finanza pubblica, nella bilancia dei pagamenti e nell'inflazione, perché il lento adattamento dei servizi reagirebbe con un aumento dei prezzi. Certo, ci sono oggi alcuni redditi molto bassi che andrebbero sostenuti con una riduzione delle tasse e/o con politiche di sussidi, ma a mio avviso questo obiettivo andrebbe realizzato con provvedimenti mirati ai singoli casi e non con misure generalizzate per categorie specifiche (lavoratori dipendenti, pensionati, imprese) che sottintendono situazioni molto diversificate al loro interno. È vero che in campagna elettorale sono stata annunciate l'abolizione dell'Ici sulla prima casa (per altro già in parte abolita dal precedente Governo) e la rimodulazione di altre tasse, e che questo è un prezzo da pagare, pur se comporterà grossi problemi di copertura finanziaria, in particolare per gli enti locali a cui è stato promesso il federalismo fiscale. Ma non bisogna credere che queste misure aiuteranno il sistema economico italiano.
Invece per aumentare la capacità di crescita del Paese, abbiamo bisogno di riforme per accelerare il processo spontaneo di adattamento, in particolare nei servizi privati e pubblici, affinché anche in questi comparti si elevi la gamma delle produzioni, si personalizzino i servizi (basti pensare alla sanità pubblica e privata ancor oggi gestita in funzione degli addetti e non dei clienti), si flessibilizzi l'offerta: insomma si riesca a far crescere l'offerta in modo che risponda positivamente alle sollecitazioni della domanda. Inoltre, abbiamo bisogno di una nuova stagione di infrastrutture moderne, per i trasporti (porti, ferrovie, autostrade, aeroporti) e di un progetto di riqualificazione del territorio, a cominciare dalle mille periferie urbane che sono state tralasciate nel corso degli anni e che rischiano di saldare tra di loro centri urbani che vanno espandendosi a macchia d'olio senza alcuna attenzione ai problemi di viabilità, di vivibilità e di fornitura di servizi moderni per le popolazioni che vi si trovano ad abitare.
Sono queste le cose rilevanti per la crescita del Paese, ma che non possono essere realizzate senza un'analisi corretta dei fabbisogni reali e finanziari e che comunque necessitano di tempo a produrre i loro effetti. Ecco perché la fretta e l'ansia di far fronte a ipotetiche emergenze congiunturali non sono, in questo frangente, buoni consiglieri ed è meglio avere sangue freddo prima di decidere cosa effettivamente serva al Paese.