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Made in Italy, la sartoria tricolore che non sente la crisi

di Francesco Benucci

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20 maggio 2008
da sx Cesare Massimiliano e Giuseppe Attolini.

Per Raffaele La Capria "a Napoli, si sa il gusto e l'eleganza del vestire sono qualità innate. Si osserva il taglio, la giuntura delle maniche, la morbidezza con cui sono attaccate le spalle, la scioltezza della vita che non deve essere troppo segnata, la larghezza del bavero, le rifiniture, le pieghe dei pantaloni ed il generale aplomb dell'intero vestito. Ma il sarto su misura sarà sempre un privilegio di pochi, di una élite". E i dati del Fashion economic Trends che nelle scorse settimane hanno parlato di crescita zero per il sistema moda italiano sembrano accentuare l'analisi dello scrittore: dollaro debole, calo dei consumi interni ed internazionali, recessione che parte dagli States e investe tutte le economie avanzate, fluttuazioni del prezzo del greggio. La sartoria tricolore insomma pare essere l'ultima frontiera del made in Italy che cede sotto i colpi della crisi economica globale e della scarsa competitività del sistema Paese. Ma c'è un triangolo produttivo a Casalnuovo, periferia estremamente degradata di Napoli, il comune dei sarti come recita l'insegna di benvenuto, dove ha sede il quartier generale della Cesare Attolini spa, una sartoria nata degli anni Trenta, che numeri alla mano, va in controtendenza. E da almeno cinque anni: da quando cioè Giuseppe e Massimiliano, i due figli del maestro Cesare – tutt'oggi per dodici ore presente in sartoria – hanno premuto sull'acceleratore della qualità estrema e dell'internazionalizzazione selezionata senza cedere alle tentazioni del vendere per vendere, segnando trend di crescita del fatturato del 25-30 per cento l'anno. Ma conservando il credo del dettaglio curato maniacalmente della "perfetta imperfezione perché bisogna vestire perfettamente corpi imperfetti". "E' quasi un peccato mortale, in questa fase storica ed economica rifiutare lavoro. E lo diciamo sommessamente – spiega Giuseppe Attolini -. Ma siamo costretti a rifiutare clienti". "Nonostante questa selezione – aggiunge Massimiliano -, abbiamo segnato nel primo trimestre 2008 un incremento del 20 per cento del nostro fatturato". Lo scorso anno il giro d'affari si è attestato intorno ai 15 milioni. Il segreto del successo di quello che viene chiamato il Re dei sarti dopo che per anni, avendo vestito il re Vittorio Emanuele III (ma tra i suoi storici clienti ci sono nomi illustri del passato, come Totò e De Sica e, pare, vista la riservatezza della proprietà, contemporanei, come Putin e Larry Eleison di Oracle), era stato ribattezzato il sarto dei re, sta tutto nel carattere artigianale che gli Attolini hanno voluto conservare: "L'attenzione ad ogni particolare è il nostro biglietto da visita – spiegano i due fratelli -: non siamo un carrozzone. Il salto industriale non ci interessa. Preferiamo che siano i nostri selezionatissimi clienti a farci da ambasciatori, in un certo senso siamo noi a scegliere i clienti in base alla loro capacità di rivendere Attolini. Le politiche di brand non bastano: meglio avere un marchio per così dire meno reclamizzato. In questa maniera i clienti pagano solo la qualità. Non è un caso che siamo associati a marchi quali Vacheron Constantin o Patek Philippe nell'orologeria o alla Bentley per le auto e non è un caso che le poche sponsorizzazioni che effettuiamo sono in sport di nicchia come il golf, il polo o la vela. Insomma, rappresentiamo una produzione molto selezionata che per questo non soffre come i nostri comunque qualificati competitor". Attualmente la Cesare Attolini spa dispone di due siti produttivi (uno per le giacche l'altro per pantaloni e complementi) a Casalnuovo e un altro, uno showroom, in via Vetriera a Chiaia, nel cuore della Napoli bene. Nel business plan del 2008 c'è però la più importante novità della Cesare Attolini spa: un nuovo stabilimento, più grande e sempre a Casalnuovo ("solo qui è possibile disporre della manodopera più qualificata", spiega Giuseppe), dove concentrare tutta la produzione. Nella sartoria prestano opera 160 sarti (su 170 dipendenti nel complesso): le tecnologie sono all'avanguardia, ma il lavoro viene fatto ancora a mano, in punta d'ago e forbice. Per questo, la produzione di capispalla, realizzati con tessuti provenienti prevalentemente da Scozia e Inghilterra, non va oltre le 50-60 unità al giorno che traducono in un migliaio al mese. L'altro segreto della sartoria Attolini sta nel mercato di riferimento: l'80 per cento della produzione è sul mercato estero. L'ultima frontiera è la piazza di Dubai, dove il marchio Attolini è diventato uno status symbol: "Pur avendo clienti in Usa, Europa e Far est, adesso i nuovi ricchi stanno comunque in Russia, in Kazakistan. Anche in questo caso – dice ancora Giuseppe – procediamo con rigidi criteri di selezione: quando arriviamo in un paese nuovo affidiamo la nostra vendita ad una serie di corner in negozi di un certo target, ma dopo una periodo di test, poi scegliamo un solo punto: rifiutare commesse è meglio che realizzarle male". L'ultima scommessa dell'azienda sta nell'allargamento dell'offerta, pur tenendo fermo lo stile che sin dagli esordi della sartoria ruppe il dogma del british style: "Quando due anni fa – conclude soddisfatto Massimiliano – lanciamo i pull in jacart in molti ci guardarono con diffidenza: adesso tutti gli stilisti italiani si sono tuffati su quel prodotto. Noi però siamo avanti. Stiamo completando, anche su richiesta del mercato estero, il nostro listino con la produzione di cravatte e camicie. Ma una cosa è certa, la quantità rimarrà sempre quella. Abbiamo richieste che ci consentirebbero di raddoppiare il fatturato, ma non è il nostro progetto".

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