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Viezzoli : «Nucleare sì ma senza illusioni»

di Franco Locatelli

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26 MAGGIO 2008

«Riaprire anche in Italia la partita del nucleare, dopo la follia di vent'anni fa, è una scelta saggia ma è meglio non farsi troppe illusioni: sarà una strada molto più lunga del previsto e dai costi molti più alti di quanto sento dire in questi giorni». Franco Viezzoli, genovese di nascita ma istriano d'origine, dall'alto dei suoi 82 anni ben portati e soprattutto di una vita trascorsa ai vertici dell'industria pubblica che lo ha visto alla guida prima della Finmeccanica e poi dell'Enel proprio mentre maturava il divorzio dall'atomo, scruta con disincanto gli orizzonti del nucleare in Italia riaperti dalla svolta governativa di tre giorni fa. Dice in questa rara conversazione pubblica concessa, non senza riluttanza, al Sole-24 Ore: «Se non si decidono regole e governance, se non si stabilisce chi comanda, chi e come deve scegliere i siti e la tipologia delle nuove centrali e chi gestisce e chi paga non si farà molta strada. Per questo penso che sul nucleare sia meglio non cullare troppi sogni e personalmente condivido tutte le cautele espresse nel suo libro "Il rebus energetico" da un economista che conosce davvero questi problemi come Alberto Clò, anche se era tempo di riaprire il discorso».

Uno dei primi problemi, secondo Viezzoli, è capire chi deciderà l'ubicazione dei nuovi impianti - il Governo o le Regioni? ed è per questo che riportare al centro le competenze oggi assegnate ai poteri locali è il primo passo da compiere. «Aver smantellato l'industria nucleare italiana e un centro di eccellenza come quello della Società Nira dell'Ansaldo, che ho personalmente contribuito a costruire quando ero all'Iri, è stato un delitto - ripensa con amarezza Viezzoli che ha avuto e continua ad avere per il nostro Paese effetti non meno devastanti della chiusura e della rinuncia alle centrali atomiche». Tutta colpa del disastro di Chernobyl? «Assolutamente no. L'effetto di quella sciagura fu enorme sull'opinione pubblica anche se il ruolo della disinformazione fu altrettanto importante, ma non mi risulta che gli altri Paesi europei abbiano reagito come noi: altrove le centrali nucleari sono rimaste e si sono moltiplicate ed è evidente che non tutto può essere spiegato con Chernobyl». E allora perché l'Italia abbandonò il nucleare? «Ho avuto 12 anni di disavventure giudiziarie e non voglio avere altri guai. Sono assediato da giornalisti ed editori che vogliono che io racconti la storia delle Partecipazioni statali e dell'industria pubblica, tra cui quella dell'energia, in Italia ma non so se lo farò perché non voglio più avere fastidi. Posso solo dire questo: che tra la metà del 1986, quando ci fu la tragedia di Chernobyl e il 1987, quando si tenne il referendum, la politica cavalcò la legittima paura dell'opinione pubblica ma la strumentalizzò con un'interpretazione arbitraria ed estensiva della consultazione popolare che, lo ricordo, prevedeva una moratoria di 5 anni e un presidio nucleare e non l'abbandono senza condizioni dell'opzione atomica. Infatti la svolta politica italiana era già chiara prima del referendum e si manifestò anche nella Conferenza nazionale sull'energia che era stata promossa nel febbraio dell'87 dal Governo e gestita dal ministro dell'Industria Valerio Zanone» malgrado i dubbi e le perplessità del presidente del Consiglio Bettino Craxi. «Quella conferenza preparò l'atto di morte del nucleare in Italia che infatti fu consumato dopo un referendum del novembre del 1987 al quale la partecipazione non fu altissima».

Ma non fu la svolta anti-nucleare di Claudio Martelli e del Psi per mettere alle corde la Dc a determinare il ribaltamento della politica energetica italiana? «Per la verità - fa capire Viezzoli - la realtà è più complessa e le ragioni politiche sono solo una parte della vicenda nella quale determinanti furono gli interessi economici del partito dei petrolieri che riuscì a fare breccia tra le forze politiche e a sconfiggere il partito dell'industria nucleare. Quelli erano i veri poteri forti e gli effetti si sono visti».

L'inversione della politica energetica italiana post-Chernobyl non poteva essere più radicale. È lo stesso Viezzoli a ricordarli: «Fu chiusa la centrale di Caorso, malgrado avesse pochi anni di vita e fosse stata ritenuta ottima anche sul piano della sicurezza da un'approfondita ispezione condotta da un gruppo di esperti dell'Aiea. Poi fu interrotta la costruzione, in fase avanzata, della centrale di Montalto di Castro e inizialmente decisa la sua conversione per impiego di combustibili fossili con una potenza produttiva di 3.200 MW. In terzo luogo fu chiusa la centrale di Trino Vercellese di cui era appena stato completato un importante upgrading della sicurezza con nuovi e aggiornatissimi sistemi di emergenza. Quindi furono arrestati i lavori preliminari di costruzione della centrale di Trino 2 su licenza Westinghouse e progetto Ansaldo. E ancora: fu abbandonato il progetto nucleare PUN dell'Enel, praticamente completato e inteso a farci uscire da un approccio episodico per realizzare un certo numero di centrali standard con benefici economici e tecnici quali l'addestramento, l'esercizio e la manutenzione e fu decretata la fuoriuscita dal progetto franco-italo-tedesco che aveva portato alla realizzazione della centrale a neutroni veloci Superphenix di Creys-Melville costruita insieme da EdF, Enel e Rwe e dalle relative industrie manifatturiere. Il risultato fu che a tutt'oggi l'Italia è l'unico tra i Paesi industrializzati ad essere completamente assente dalla produzione di energia elettrica dal nucleare». Ma correggere l'anomalia italiana non sarà tanto facile.

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