Caro direttore,
cresce ogni giorno l'orientamento a ritenere il ministro dell'Economia Giulio Tremonti come il vero leader programmatico dell'attuale maggioranza (e non solo).
È del resto l'unico politico che da mesi ha elaborato e poi quasi imposto una torsione delle opzioni di governo dell'economia, spiazzando i fondamentalisti del mercato e rilanciando un ruolo forte dell'intervento pubblico. E mantenendo per se stesso l'ampia discrezionalità consentita dal motto «il mercato quando è possibile, lo Stato quanto è necessario». Non ho elementi per capire quanto il successo piaccia all'interessato, viste le insofferenze che gli girano intorno e visti i cecchini che lo guardano dai tetti. Verrebbe da dire «Dio gliela mandi buona», non tanto sul piano dell'augurio personale quanto sul più oggettivo desiderio di veder realizzata una significativa redistribuzione del potere fra i diversi soggetti dello sviluppo.
Soggetti che si trovano nella galassia delle imprese e dei centri finanziari, come in quella delle varie amministrazioni pubbliche, nazionali e locali. E in proposito ritorna dal passato prossimo la tentazione a rivalutare e riproporre quell' «economia mista» di cui l'Italia è stata per decenni laboratorio, con i suoi profeti e teorizzatori (da Alberto Beneduce a Pasquale Saraceno), con i suoi politici apprendisti stregoni, con i suoi bravi boiardi.
Devo dire subito, pur da ultimo saraceniano in servizio effettivo, che quell'esperienza non mi sembra oggi ripetibile. In primo luogo perché l'intervento dello Stato si impone oggi a causa di un bisogno non economico, ma "sociale": il bisogno cioè di rassicurazione collettiva espresso da una società fragile e un po' impaurita e che quindi vuole più controlli generalizzati, più espulsioni per gli immigrati, più vigili e soldati per strada, più cultura e prassi della sicurezza, più potere alle leggi e agli apparati pubblici. In fondo ai cittadini sembra importare molto meno, rispetto a questo bisogno, la necessità che i pubblici poteri sostengano la battaglia competitiva delle imprese o l'espansione dei salari, dei redditi e dei consumi.
Ma anche restando al campo strettamente economico, una nuova fase di economia mista non mi sembra all'orizzonte. Stiamo infatti ripetendo l'errore del passato, cioè il disordinato accollarsi di compiti da parte dello Stato: dall'assistenza agli anziani allo sviluppo della ricerca scientifica, dall'attrazione degli investimenti esteri alla casa per i nuclei familiari a basso reddito; dal rilancio del nucleare all'idea di una banca per lo sviluppo meridionale. La congerie di interventi pubblici, spesso sovrapposti a responsabilità di altri soggetti (e senza neppure i Saraceno a programmarli e i boiardi a gestirli), non crea economia mista e forse neppure un dignitoso statalismo. Ricordiamoci che l'economia mista è nata come lucida scelta ed è implosa come un castello di carte; se non si fanno scelte precise rischiamo di ricostruire uno sfinestrato castello di carte.
E ciò non vale solo per l'economia, vale anche e soprattutto per l'intervento nel sociale e nella sicurezza collettiva, dove non dobbiamo esser tentati dal sovrumano compito di rassicurare un po' tutti. È vero che abbondano in Italia le frange di fragilità e di inquietudine; ma rispondere direttamente e puntualmente alle loro pretese di rassicurazione certo moltiplica le formule e gli strumenti di pronto intervento, però induce all'appiattimento assistenziale. Non crea dinamica sociale e non illumina speranze di nuovo sviluppo. Forse sarebbe utile, per chi ha e vuole avere leadership programmatica, cominciare a coltivare, più che la paura di antiche e nuove pesti, la speranza futura.