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Perché è giusto elevare l'età della pensione per le donne

di Giuliano Cazzola *

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20 agosto 2008

Insieme con la manovra estiva del Governo è arrivata in porto la norma sulla possibilità di cumulare pensione e reddito lavorativo. La nuova misura determinerà degli effetti anche nel mercato del lavoro. Intanto, Il Sole 24Ore del 23 giugno scorso, nella sua inchiesta sui beneficiari della nuova disciplina, ha sfatato uno dei più frequenti e consolidati luoghi comuni del dibattito in materia previdenziale: l'assunto per cui le lavoratrici non vedrebbero l'ora di andare in pensione di vecchiaia a 60 anni per essere risarcite del «doppio lavoro» (in azienda e tra le mura domestiche) che sono costrette a svolgere per decenni.

Per fortuna, negli ultimi tempi, l'idea di un allineamento tra i generi dei requisiti dell'età pensionabile legale - pur incontrando ancora ostilità trasversali molto forti - ha fatto breccia anche tra vasti settori di opinione pubblica femminile, dal momento che il nostro Paese potrebbe essere chiamato, in sede europea, a rispondere di discriminazione di genere proprio perché l'ordinamento pensionistico costringe le donne ad uscire dal mercato del lavoro cinque anni prima degli uomini. Questa nuova e diffusa consapevolezza non è l'espressione di una èlite scollegata dai progetti di vita delle donne in carne ed ossa.

Sono i dati sul tasso di occupazione nella fascia d'età compresa tra 55 e 64 anni (una delle aree di criticità e di sfida individuate da Lisbona 2000) a mettere in evidenza incrementi percentuali della permanenza al lavoro delle donne più elevati di quelli degli uomini di pari età (pur in un contesto di grave arretratezza del tasso d'occupazione femminile). L'indagine del Sole 24Ore ha convalidato tale tendenza da un altro angolo di visuale: il numero delle pensioni supplementari riconosciute a quei soggetti - lavoratrici e lavoratori - che scelgono di continuare a lavorare dopo la quiescenza e che, per questo motivo, ricevono (nel nostro caso dall'Inps) un assegno aggiuntivo a quello già percepito. Per questa via è possibile risalire, con una certa attendibilità, alla platea di coloro che operano in regime di cumulo tra pensione e reddito, in quanto il supplemento di pensione che ricevono è calcolato sulla base della contribuzione versata durante la nuova attività.

In un ventennio (dal 1987 al 2007) sono stati 2,5 milioni gli italiani (e le italiane) che si sono visti approvare - ha scritto il quotidiano - la domanda di supplemento; in media circa 160mila soggetti all'anno (secondo un trend crescente negli ultimi tempi). Anche questa situazione è significativa. Di certo, per tante ovvie ragioni, non si tratta delle medesime persone, ma il numero annuo delle pensioni supplementari è molto simile a quello dei nuovi trattamenti di anzianità liquidati nel medesimo periodo. Il che non ci autorizza ad affermare, con certezza, che la grande maggioranza di coloro che si avvalgono dell'esodo anticipato continua a lavorare con altri rapporti. Ma sarebbe assai difficile smentire categoricamente una valutazione siffatta. Sono le regioni settentrionali a garantire ai pensionati nuove occupazioni remunerate (l'intero Sud, Isole comprese, vanta un numero di assegni supplementari pari alla sola Lombardia). Quanto alla ripartizione per sesso le lavoratrici con pensioni supplementari sono quasi 1,3 milioni contro 1,2 milioni di maschi. È vero: molte donne aggiungono un reddito alla pensione di reversibilità del marito defunto. La circostanza, però, non è tale da offuscare la novità: le lavoratrici non sono solo disposte, in teoria, a restare più a lungo al lavoro, ma si comportano da tempo di conseguenza. Ecco spiegato perché sarebbe corretto l'obiettivo di elevare l'età di vecchiaia «al femminile».

Il vero paradosso sta nel fatto che adesso la donna potrà andare in pensione di vecchiaia (a regime) due anni prima che di anzianità. Pertanto, ho presentato un progetto di legge (AC 1299) che prevede un incremento graduale - fino a 62 anni - del limite anagrafico delle donne - nel sistema retributivo - in vista del ripristino di un pensionamento flessibile e unificato, nel modello contributivo, in un range compreso tra 62 e 67 anni, correlato agli effetti di incentivo/disincentivo prodotti da appropriati coefficienti di trasformazione. Non si tratta pertanto di un allineamento tout court, ma di una soluzione modulare che non è sorda alle propensioni e alle esigenze delle persone. Quanto al riconoscimento delle specificità femminili, sarebbe sicuramente più equo predisporre delle tutele operanti nel corso della vita lavorativa (il progetto propone agevolazioni per la maternità, il lavoro di cura e la formazione) piuttosto che attardarsi in una logica di risarcimento forfetario a fine carriera.

* Vice Presidente Commissione Lavoro della Camera dei Deputati

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