Sotto i nostri occhi e al centro della nostra attenzione ci sono da giorni le novità, in più casi davvero sconvolgenti, provocate dalla crisi finanziaria e dalla impellente necessità di limitarne i danni: ritorno dello Stato nella proprietà delle banche, garanzie pubbliche a destra e a manca, violazioni del Patto di stabilità e aiuti di Stato guardati dalla Commissione europea con benevola comprensione, il mondo delle imprese che vede nell'intervento statale la leva cruciale per la sua stessa ripresa.
Ce n'è da discutere su tutto questo e sulle conseguenze che potrà lasciarci, ivi compreso il risorgere di pericolose tentazioni faustiane nella politica, dalle quali è il caso sin d'ora di guardarsi. Ma è una discussione utilmente già in corso, che di sicuro continuerà a svilupparsi. C'è meno attenzione, invece, per le conseguenze che la crisi sta provocando su temi e vicende che stanno al di là del suo immediato epicentro.
Essi possono, tuttavia, subirne cambiamenti di grande portata, davanti ai quali rischiamo di trovarci impreparati. Per questo vale la pena di occuparsene sin d'ora e di addestrarci, anzi, a metterle tempestivamente a fuoco.
Qui farò solo alcuni esempi, anche perché non sarei neppure in grado di fare una rassegna completa, tale da includere, fra l'altro, i diversi modelli di consumo e di vita delle famiglie americane dopo la prevedibile stretta sulle carte di credito e le implicazioni che ciò potrà avere per lo sviluppo economico del mondo intero (che ha sempre fatto bella mostra delle sue critiche giudiziose alla cicala americana, ma quelle carte di credito le ha comunque tenute in gran conto, tant'è che ci ha vissuto per le sue esportazioni). Ho riflettuto per ora su temi che sono da tempo sulla nostra agenda nazionale ed europea e sono giunto a una importante conclusione. La crisi ha creato uno scivolo che porta naturalmente a scenari nefasti. Ma offre anche l'opportunità di evoluzioni positive, che, a differenza di quegli scenari, non possono tuttavia avvenire da sole.
Per l'Europa e per ciascuno dei nostri Paesi è importante che si completi al più presto il processo di convergenza fra le economie dei vecchi Stati membri e quelle dei nuovi arrivati dell'Est europeo. I primi interessati sono loro, ma lo siamo anche noi e non soltanto per ragioni economiche. Basti pensare alle tante difficoltà provocate in Italia dagli elevati flussi migratori provenienti da quei Paesi e dalla Romania in particolare.
Ebbene, a causa non tanto della crisi, quanto della forza e della credibilità delle difese innalzate dagli Stati più robusti dell'Unione, si è accentuata la frattura mai scomparsa fra vecchi e nuovi membri della stessa Unione. I capitali stanno fuggendo verso i Paesi con le difese più alte, nei più deboli si essiccano i serbatoi finanziari, investimenti già programmati o addirittura in corso vengono abbandonati, si indeboliscono le valute e si accentuano gli squilibri dei bilanci pubblici. Non a caso il soccorso d'emergenza del Fondo monetario, già attivato in Ucraina, sta arrivando anche in Ungheria e quindi dentro i nostri confini.
Le conseguenze possono essere devastanti, con rischi di destabilizzazione non solo economica, ma anche politica. Possono accentuarsi i flussi migratori verso i Paesi occidentali in un momento che è già difficile anche per loro e possono rafforzarsi nell'Est i movimenti populisti e nazionalisti che già ci sono e che ben possono sfruttare l'occasione per accrescere l'ostilità verso l'Europa dei ricchi. È uno scenario altamente probabile. Ma se l'Unione si rivela solidale, se attiva su scala adeguata quel sostegno finanziario per gli Stati membri in grave difficoltà previsto dall'articolo 100 del Trattato (cosa che per la verità ha cominciato a fare), se i nuovi strumenti che potrebbero nascere proprio nelle prossime settimane per finanziare investimenti terranno conto delle ragioni dell'Est, allora lo scenario potrebbe rovesciarsi. In fondo lo capiscono tutti che davanti a una crisi come questa essere parte del tessuto comune europeo aiuta, aiuta essere nell'euro, aiuta avere istituzioni europee efficaci.
Paradossalmente, perciò, l'occasione può servire proprio per rafforzare i sentimenti europeisti nei Paesi dell'Est, spingendoli ad accentuare l'impegno a entrare nell'euro e a superare le remore verso il Trattato di Lisbona, che alcuni conservano. Non solo, ma qualcosa di analogo può accadere anche nei Paesi tuttora problematici della vecchia Europa, dalla Danimarca, dove la causa dell'euro ha guadagnato molti punti in queste settimane, alla stessa Irlanda, il cui no al Trattato di Lisbona la isola da un'Europa della quale ha un crescente bisogno. Sono tutte potenzialità, non di più. Ma se l'Unione sarà intelligentemente attiva si potranno realizzare.
E passo ai guai delle nostre economie reali e alle reazioni possibili. Ciascuno dei nostri Stati può sostenere le sue imprese a carico del proprio disavanzo, del mercato integrato e, se serve, della stessa sostenibilità ambientale, con costi perciò che rischiano di superare i benefici. Oppure possiamo procedere insieme. L'Unione non è sovrana e non si presta a fondi sovrani. Ma è saggio che lavori, e lo sta facendo, per dar vita a un nuovo fondo, che finanzi infrastrutture nei settori dell'energia e dei trasporti. È saggio che vincoli alla sostenibilità ambientale eventuali sostegni nazionali alle imprese, giacché è certo bene che le fabbriche di auto non chiudano, ma è ancora meglio se rimangono aperte per produrre auto non inquinanti. E sarebbe infine ancora più saggio se, fermi restando i poteri degli Stati, raccomandasse a tutti di sostenere la capacità d'acquisito degli europei, anche perché agevolare la produzione di auto o di altri beni che poi nessuno compra non aiuta l'economia. Così facendo, farebbe cose non solo utili oggi, ma anche durature come avvio di quella "Europa politica che decide", auspicata giorni addietro da Nicolas Sarkozy e settimane fa forse impensabile anche per lui.
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