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I prezzi calano, ma non sarà deflazione

di Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi

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17 Gennaio 2009

Inflazione
«L'inflazione è tornata», titolava in copertina l'autorevole Economist solo otto mesi fa. «La deflazione è arrivata», potrebbe con una piroetta minacciare ora. La prima profezia era e si è dimostrata infondata: l'accelerazione dei prezzi al consumo era l'effetto dell'aumento dei prezzi relativi a favore delle materie prime, con ricadute solo sui beni finali a intensivo contenuto di quelle. Quella fiammata nel costo della vita si sarebbe presto esaurita per mancanza di carburante, una volta finita la corsa delle commodity. Qualcuno pensava (e astrologava) che le quotazioni degli input primari sarebbero almeno in parte rientrate.
Nessuno immaginava così tanto e così rapidamente. E come docile puledro, la dinamica dei prezzi al consumo ha seguito quel ripiegamento: negli Usa dal 5,6% in luglio allo 0,1% in dicembre (la variazione annua più bassa dal '54), dal 4% all'1,6% in Eurolandia (cambio e tassazione dell'energia spiegano le minori oscillazioni. Ma se guardiamo all'indicatore che riflette l'inflazione "fatta in casa", al netto di energetici e alimentari, questo ha continuato a viaggiare a ritmi moderati: è all'1,8% al di là dell'Atlantico (2,5% in luglio), appena sotto il 2% in Eurolandia (forse la Bce dovrebbe considerarlo di più).
Certo, è probabile che nei prossimi mesi punterà anch'esso all'ingiù sia per la debolezza della domanda che induce agli sconti sia per gli effetti ritardati delle materie prime precipitate. Ed è anche vero che l'economia mondiale nell'era della globalizzazione rimane più deflazionistica che inflazionistica. Ma con le dinamiche delle retribuzioni positive ovunque la spirale all'ingiù dei prezzi (molto più pericolosa di quella all'insù, come sanno i giapponesi) non verrà innescata. Una curiosità: in Italia finalmente si tacciono i cantori dell"inflazione quotidiana" alle stelle.
Indicatori reali
Tutti insieme, precipitosamente. La recessione era annunciata da tempo. Non però così corale e intensa. Ormai, come rivela il superindice Ocse, interessa tutti i Paesi industriali e molti emergenti. Questi ultimi si sono dimostrati un motore più fragile dello sviluppo globale di quanto sperato, perché troppo poco autonomi nell'alimentare la domanda interna.
Il commercio mondiale si sta contraendo anche in assenza di restrzioni commerciali. E ciò toglie la stampella dell'export per supportare la crescita dei Paesi incapaci di far leva su consumi e investimenti domestici. Germania in testa, che finalmente ha dovuto convertirsi alle politiche espansive di matrice keynesiana.
Se dovessimo badare ai soli fondamentali (tassi, costi delle materie prime, inflazione), dovremmo dipingere scenari rosei. Invece le previsioni vengono draticamente tagliate: dopo la Banca d'Italia, la Commissione europea (lunedì) e l'Fmi (a fine mese). La corretta avvertenza per l'uso dei nuovi numeri non riguarda tanto il «se» si realizzeranno ma il «quando». La gran parte della recessione è alle nostre spalle: la maggior perdita del Pil è già avvenuta nel 2008 e le variazioni medie annue ingannano. L'importante è ripartire nel corso del 2009. Ma per questo servono politiche economiche che rimpolpino la fiducia insieme ai portafogli.
Tassi d'interesse, valute, moneta
Ormai la corsa dei tassi è al ribasso. Come al solito, la Bce è alla testa della retroguardia, ma non bisogna lamentarsi: meglio tardi che mai. I tassi sono praticamente a zero in Giappone e in America, all'1,5% in Gran Bretagna, al 2% in Europa... E coloro che amano preoccuparsi – cioè coloro che amerebbero multare per eccesso di velocità i carri dei pompieri – già vedono lo spettro dell'inflazione prossima ventura. Tassi bassi e immane creazione di liquidità non possono che creare inflazione. O no?
Solo sei mesi fa – la Banca centrale europea insegna – ci si preoccupava dell'inflazione. Ora si parla sempre più di deflazione, ma, come detto, c'è chi vede invece dietro l'angolo il ritorno dell'inflazione. Le cose vanno male, ed è già dura. Ma almeno vorremmo sapere di che cosa ci dobbiamo preoccupare, prima di accostarci al Muro del pianto.
Le intenzioni di fondo della politica monetaria sono chiare: bisogna creare le condizioni perché il cavallo beva. Come si sa, si può portare il cavallo alla fontana ma non può costringerlo a bere. Tuttavia, fuor di metafora, la politica monetaria può fare di più, dopo aver portato a zero il prezzo dell'acqua. E, come osservato nelle ultime "Lancette", le Banche centrali – per prima la Fed ma ora anche la Bce, stando a qualche criptico accenno del Presidente Claude Trichet – si accingono al secondo round dell'espansione, alla cosidetta politica di espansione quantitativa. Il presidente della Fed Ben Bernanke preferisce, giustamente, chiamarla credit easing, espansione del credito, perché i meccanismi del credito sono bloccati in giunture e cerniere ben determinate. Il quantitative easing, quello praticato dal Giappone negli anni Novanta, era troppo indifferenziato per far ripartire il meccanismo del credito (che era bloccato soprattutto dalle sofferenze). La "nuova politica monetaria" è più mirata, e in America ha preso di mira volta a volta il mercato dei titoli cartolarizzati, il mercato della carta commerciale, i fondi monetari, il finanziamento delle Gse (Fannie e Freddie)... L'assegnazione dei ruoli vede solitamente la Banca centrale dominare il segmento a breve dei tassi e i mercati dominare quello a lunga. Ma nelle emergenze la Banca centrale cerca di invadere tutto lo spettro dei rendimenti e Bernanke non ha esitato ad adombrare anche l'acquisto di titoli a lunga per tenere bassi i tassi, oltre ad assicurare che sul breve resteranno bassi per lungo tempo. Insomma, dopo il "prestatore di ultima istanza" le Banche centrali stanno divenendo anche l'«investitore di ultima istanza» e perfino l'«azionista di ultima istanza». Quest'ultima medaglia viene assegnata anche ai Governi, come si è visto nel caso della nazionalizzazione della Northern Rock inglese e dell'ingresso dello Stato nel capitale di molte banche europee. Ma il caso americano è andato anche più in là, e la Fed si potrebbe perfino trovare a possedere non una banca ma una società di assicurazioni, dato che i suoi prestiti all'Aig le danno un warrant sull'80% del capitale del gigante assicurativo.
  CONTINUA ...»

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