Il grande shopping cinese oltre frontiera è appena cominciato, pur in un anno di crisi nera. E non è destinato a fermarsi. Sulle orme dell'aggressivo Xiao Yaqing, capo di Chinalco che mette sul piatto 19,5 miliardi di dollari per aumentare la sua partecipazione di minoranza nel gigante delle miniere australiane Rio Tinto, altri gruppi si sparpaglieranno per il mondo, sostenuti dal Governo di Pechino. Dall'Africa all'America latina, andranno in cerca di materie prime, strategiche per nutrire il grande piano di sostegno all'economia del gigante dell'export, "piegato" dal contagio della recessione globale e dal conseguente inaridimento della domanda esterna. Mentre nei Paesi avanzati lo scouting cercherà le occasioni migliori per entrare in possesso di tecnologia avanzata, di marchi riconosciuti nei macchinari e nei beni di consumo, di tecniche di gestione e marketing che ancora non sono pienamente nelle corde delle corporation cinesi.
Più aggressivi nei loro M&A saranno certo i giganti statali dell'energia. Più prudenti i gruppi privati, come spiega bene Wei Wang, super esperto di fusioni e acquisizioni con base a Pechino, nell'intervista qui a lato. Dal matrimonio Lenovo-Ibm alle nozze Tlc-Thomson al tentivo di unione China Mobile-Millicom, le esperienze non sempre felici dei pionieri della politica del "Go global", inducono più di un Ceo alla cautela. Ma la caccia è aperta: i soldi non mancano al Governo cinese seduto su 2mila miliardi di dollari di riserve valutarie. E oggi, come sottolineava nel week-end il quotidiano Herald Tribune, «la Cina riceve una più calda accoglienza per i suoi contanti». Per ora, almeno, nelle aree emergenti.
Ma la più che probabile corsa ad attirare gli investimenti cinesi, a differenza del passato, vedrà scendere in campo anche i Paesi avanzati a corto di risorse finanziarie. E qui ha ragione Pietro Ichino che, contro sterili «difese dell'italianità delle nostre imprese», ieri ha suggerito sul Corriere della Sera la necessità «di portare in Italia il meglio dell'imprenditoria mondiale» e «di allineare il nostro con i Paesi europei più capaci di attirare investimenti stranieri per favorire l'ammodernamento e il rafforzamento del nostro tessuto industriale». Ciò anche perché, a differenza di altre economie trainate da grandi gruppi industriali, la realtà italiana è fatta di imprese medie e piccole che faticano a reggere i "grandi numeri" imposti dalla globalizzazione. Perché, allora, dire no ad alleanze o matrimoni in casa?
Vale in verità anche per i cinesi. A detta degli analisti, il 2009 sarà un anno effervescente per i M&A oltre la Grande Muraglia, dove la crisi ha reso più convenienti molte occasioni e dove si stanno aprendo nuove opportunità nella sanità (la svizzera Roche è già pronta ad acquisire interessanti imprese biotech cinesi) e nell'alimentare, settori che il Governo di Pechino è determinato a spingere in funzione anti-crisi. Per la Cina sarebbe del resto controproducente chiudersi alle acquisizioni estere, nel momento in cui prosegue il suo shopping oltre frontiera.
Che si tratti di stranieri in Cina o di cinesi nel resto del mondo, comunque, che le premesse per gli affari ci siano tutte è testimoniato dall'attivismo degli studi legali. Quelli americani licenziano a New York o San Francisco e aprono in quel di Pechino o Shanghai.
