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La parità retributiva fa bene all'economia

di Alessandra Casarico e Paola Profeta

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3 FEBBRAIO 2009

Alla parità retributiva tra uomini e donne è consacrata la prima legge firmata dal nuovo presidente degli Stati A
Uniti. Questa normativa – la «Lilly Ledbetter Fair pay restoration act» - rappresenta un messaggio solenne, nelle parole dello stesso Barack Obama: l'intera economia può funzionare bene solo quando si garantisce che funzioni bene per tutti. In altri termini, è compito e interesse di chi governa stabilire e promuovere le condizioni di parità sostanziale per tutti i lavoratori.

La parità retributiva, insieme a quelle di accesso e trattamento, è uno degli ingredienti dell'uguaglianza uomo donna nel mercato del lavoro. È, tuttavia, un obiettivo da raggiungere più che una realtà. Per misurarla si fa riferimento al «differenziale retributivo di genere», che coglie la differenza, in media, tra la remunerazione oraria lorda di un lavoratore e quella di una lavoratrice. Questo differenziale dipende da caratteristiche individuali, quali l'età e il livello di istruzione, e da caratteristiche dell'occupazione, quali la posizione professionale, la tipologia dell'impiego, l'anzianità lavorativa e il settore di appartenenza. Inoltre, se il datore di lavoro si aspetta che, a parità di situazioni individuali e occupazionali, un uomo abbia una produttività media più elevata o meno variabile di una donna, lo paga di più, nel rispetto dei vincoli di legge, per esempio ricorrendo a componenti variabili della remunerazione. Invece, quando le differenze di retribuzione tra uomini e donne non sono riconducibili a caratteristiche individuali, occupazionali o alla diversa produttività attesa, sono generalmente imputabili a comportamenti discriminatori. Sebbene complessi da individuare, questi casi non sono fenomeni isolati, come la scelta di Obama testimonia.

Il differenziale retributivo di genere non è solo un problema degli Stati Uniti. Secondo Eurostat, nel Regno Unito è stato nel 2005 pari al 20%, in Germania al 22% e nella Ue (27 Paesi) al 15%. In Italia la situazione sembrerebbe più rosea, in quanto il differenziale si ferma al 9%. Tuttavia, dietro a questo dato ci sono almeno due problemi.

La partecipazione al mercato del lavoro delle donne poco istruite e qualificate è molto più bassa nel nostro Paese; i differenziali salariali di genere sono molto ampi, in Italia come negli altri Paesi, quando si considerino elevati livelli di istruzione e di qualifica professionale.
Sul primo punto, in Italia il tasso di occupazione delle donne tra i 15 e 64 anni con istruzione primaria e secondaria di primo grado è stato nel 2007 pari al 23,3% (la quota per le laureate è il 69,8%) contro il 55,2% del Regno Unito, il 40,4% della Germania e il 39,1% della media Ue. La bassa partecipazione delle donne poco istruite in Italia fa sì che il salario medio femminile sia più alto, perché prossimo a quello delle donne istruite, e quindi il differenziale con gli uomini si riduca. In altri termini, il divario del 9% non deve essere letto come un risultato positivo, poiché deriva da una selezione nella forza lavoro più forte da noi che altrove. La diffusione di lavori precari, la scarsità di servizi pubblici all'infanzia e di misure di conciliazione ostacolano l'ingresso nel mercato dei soggetti economicamente più deboli.

Le difficoltà non mancano neanche per le donne più qualificate, e veniamo così al nostro secondo punto. Per loro è più facile superare le barriere all'ingresso, ma non progredire nella carriera. Differenziali salariali crescenti con il livello di istruzione e di qualifica segnalano infatti un problema di «segregazione verticale » o di accesso al vertice.

È opportuno dunque orientare le soluzioni di policy in due direzioni. Da un lato, aumentare la partecipazione femminile al mercato del lavoro potenziando i servizi e le misure di conciliazione. Dall'altro,rimuovere gli ostacoli per l'accesso al vertice, prevedendo per esempio un adeguato monitoraggio sulle imprese e in particolare sui processi di selezione manageriale, in modo da garantire almeno la presenza di candidate donne. Non siamo né le prime né le uniche a suggerire l'importanza di questi interventi per il funzionamento dell'economia italiana. Ma le risposte sono ancora deboli.

L'attenzione stessa al tema della parità uomo-donna è in generale piuttosto limitata o polarizzata su aspetti molto specifici, come è successo recentemente con il dibattito sull'uguaglianza dell'età di pensionamento tra uomini e donne. Le difficoltà per le donne nell'accesso al mercato del lavoro, i differenziali salariali e il diverso trattamento durante l'attività lavorativa e nel momento del pensionamento sono aspetti diversi, ma tra loro collegati. E indicano come la strada verso la parità sia ancora lunga.

C'è bisogno di una prospettiva ampia, che metta al centro il lavoro delle donne come fattore produttivo e la parità uomo- donna sul mercato del lavoro come obiettivo di un'economia che«per funzionare bene deve funzionare bene per tutti».

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