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Sotto tiro il divieto ai turni di notte

di Alessandra Servidori*

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3 FEBBRAIO 2009

Dall'Unione europea arrivano robusti segnali di rinnovamento in materia di lavoro femminile e protezione sociale: in tutte le direttive comunitarie si punta ad assicurare maggiori reti di servizi a disposizione delle lavoratrici e della famiglia in una logica proattiva impostata a garantire sia la sicurezza sul posto di lavoro, che l'occupabilità, che la parità di retribuzione. L'Italia è nel mirino di sanzioni perché accusata di discriminare le donne proprio con effetti concreti sul reddito. Poche settimane fa la condanna dell'Alta Corte di Giustizia perché si consente alle dipendenti della pubblica amministrazione di andare in pensione a 60 anni, cinque prima dei loro colleghi maschi, anche con un riflesso negativo sulla pensione percepita.
La sentenza dell'Alta Corte ha rimesso in discussione il criterio con il quale si definì il trattamento previdenziale femminile italiano: quello per cui la donna deve essere risarcita della sua condizione di oggettiva discriminazione attraverso uno «sconto» sull'età pensionabile. Nel nostro Paese si è riaperto il dibattito, limitatamente alle donne del settore pubblico, anche con opinioni diverse tuttora a confronto. C'è chi reputa più opportuno mantenere la norma. E chi ritiene sia utile valorizzare la posizione della lavoratrice con un maggior numero di contributi figurativi a copertura di più lunghi periodi di maternità e di cura, sia dei figli piccoli che degli anziani, adeguando con flessibilità l'età di pensionamento delle donne a quella degli uomini.

Nei giorni scorsi la Ue ha demolito un altro caposaldo delle prerogative tradizionali: il divieto di lavoro notturno per la donna dall'accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. Anche in tal caso quanto da noi, in ambienti bipartisan, è considerato una tutela indispensabile, in Europa è ritenuta una discriminazione.

La Commissione europea ha redarguito l'Italia proprio sul tema del divieto di lavoro notturno delle donne, nei casi previsti dall'articolo 53 del dlgs n.151/2001.

Due le obiezioni Ue. La prima: il divieto totale e automatico a lavorare di notte imposto dalle autorità italiane costituisce un ostacolo alla parità tra uomini e donne, e quindi un trattamento meno favorevole nei confronti delle donne e va perciò considerato come una discriminazione. La seconda: la disposizione equivale a un divieto di lavorare per le donne in gravidanza, siano esse disposte a lavorare o meno, per un periodo che eccede ampiamente il periodo di congedo di maternità previsto dalla normativa nazionale, compensato dal versamento di un'indennità pari all'80% della retribuzione normale delle lavoratrici. In altre parole, secondo la Ue, il divieto totale e automatico ha come conseguenza per le donne interessate, una perdita del 20% del reddito, dovuta unicamente al fatto che sono donne.

La strada da seguire in Italia è quella di costruire una nuova struttura del welfare e del mercato del lavoro con dispositivi concreti di flessibilità e di servizi che renda l'occupazione delle donne lo strumento effettivo di sviluppo.

Alessandro Servidori (*Consigliera nazionale di parità )

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