L'intesa sul nuovo modello contrattuale segna il definitivo superamento dell'attuale assetto, che risale all'accordo del 23 luglio del 1993. Quindici anni fa l'imperativo categorico era tenere sotto controllo le spinte inflazionistiche: le parti sociali si accordarono su una struttura contrattuale centralizzata in cui il livello nazionale ricopriva un ruolo essenziale, con aumenti spalmati per tutti in modo uniforme, legati all'inflazione programmata, e recuperi successivi del differenziale inflazionistico.
Rispetto al 1993, però, le priorità sono cambiate: adesso si punta ad un incremento della produttività e, insieme ad essa, delle retribuzioni reali. Con più peso alla contrattazione decentrata, sia essa aziendale o territoriale, potenziando e rendendo strutturali gli incentivi messi in campo dal Governo.
Una sfida non facile, questa, visto che la contrattazione di secondo livello è scarsamente diffusa, soprattutto nella miriade di piccole aziende in cui il sindacato non è presente. Ma si tratta di una sfida che le parti sociali (con l'esclusione per il momento della Cgil che non ha firmato l'intesa) hanno voluto cogliere, convinte di poter così contribuire a far crescere il salario dei lavoratori, favorendo la distribuzione della ricchezza proprio laddove si produce, a livello aziendale.
La Cgil, rimane isolata a difesa del modello del 1993, convinta che la riforma potrà solo peggiorare le condizioni dei lavoratori. Con la riforma gli aumenti del contratto nazionale sono legati all'andamento di un nuovo indicatore, costruito in base all'indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo, per l'Italia (Ipca), depurato dalla dinamica dei beni energetici importati. Entro la vigenza contrattuale sarà assicurato il recupero degli eventuali scostamenti tra l'inflazione prevista e quella reale (sempre al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati). Ma, soprattutto, con il nuovo modello entrerà in giuoco la contrattazione decentrata che finora ha ricoperto un ruolo marginale: il premio variabile sarà calcolato in base ai risultati conseguiti rispetto agli obiettivi concordati dalle parti che faranno riferimento ad indicatori come la crescita di qualità, redditività, efficienza organizzativa, innovazione.
Un contributo alla diffusione della contrattazione aziendale nelle piccole imprese arriverà dagli incentivi statali. Per quei dipendenti di aziende in cui non esiste la contrattazione di secondo livello, sarà previsto nel contratto nazionale un elemento di garanzia retributiva. Sarà corrisposto a quei lavoratori che non percepiscono altri trattamenti economici oltre a quanto previsto dal contratto nazionale.
Sono inoltre fissate precise scadenze nel negoziato per evitare il dilatarsi all'infinito dei tavoli per i rinnovi contrattuali che provocano una perdita del potere d'acquisto per i lavoratori, dando spesso origine a fenomeni di conflittualità.
I sindacati devono presentare la piattaforma in tempi utile per avviare le trattative 6 mesi prima della scadenza del contratto, mentre le aziende, una volta ricevute le proposte, hanno 20 giorni per rispondere. Con le trattative in corso, per 7 mesi i sindacati non possono scioperare e le aziende non possono decidere iniziative unilaterali. Se dopo 6 mesi dalla scadenza del contratto non si è raggiunta ancora un'intesa è previsto l'intervento del Comitato paritetico, organismo costituito dalle parti sociali a livello confederale. I prossimi passaggi sono la definizione di regole comuni sulla rappresentanza e la razionalizzazione dei contratti, con lo scopo di ridurne il numero. Ma per i sindacati il prossimo banco di prova è rappresentato dai rinnovi dei contratti in scadenza. Vanno in direzioni opposte le due recenti esperienze: gli alimentaristi di Cgil, Cisl e Uil hanno presentato una piattaforma comune, mentre nelle Tlc le proposte sono 3. Nei prossimi mesi si vedrà quali delle due strade il sindacato confederale ha deciso di percorrere.