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Ammortizzatori da riavviare

di Innocenzo Cipolletta

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5 aprile 2009


Nelle politiche per contrastare l'attuale recessione, l'Italia è senza dubbio condizionata dall'elevato debito pubblico che si trascina da tempo e che ha ripreso a crescere dall'anno passato. Ma questo non significa che non possa fare nulla. Anzi, proprio l'Ocse ci ricorda che bisogna sostenere l'economia per attenuare l'ondata attesa di disoccupazione. E il summit del G-20 è stato dominato dal timore della deflazione mondiale. Ci sono interventi, come quello per l'edilizia proposto dal Governo, che, se gestiti in modo da evitare scempi al patrimonio urbanistico e paesaggistico, possono attivare il risparmio privato che in questa fase recessiva sta crescendo. Infatti le famiglie non spendono per "precauzione" e questo contribuisce ad aggravare la recessione, in una spirale fatta di previsioni e di timori che finiscono per autorealizzarsi. Ogni misura che contrasti questi atteggiamenti può portare a risultati positivi senza implicare spesa pubblica.
Ma anche la spesa pubblica può essere attivata in modo rilevante, a condizione che non si tratti di spesa permanente. Una recessione implica sempre un aumento del disavanzo pubblico, sia perché si riducono le entrate fiscali e contributive, che sono legate all'andamento dell'economia, sia perché aumenta la spesa pubblica per le varie forme di assistenza che sono implicite nei nostri sistemi di sicurezza sociale. Si tratta di quelli che un tempo erano chiamati gli "stabilizzatori automatici", ossia quelle misure che entrano in funzione in modo automatico (senza bisogno di un provvedimento legislativo) e che servono ad attenuare gli effetti della recessione e a facilitarne l'uscita. Poi, una volta terminata la recessione, anche questo disavanzo aggiuntivo si riassorbe automaticamente.
Gli stabilizzatori sono particolarmente importanti in questa recessione, perché essa non è nata dalla necessità di correggere squilibri presenti nel nostro Paese, ma è stata importata dall'estero (dagli Usa) attraverso la crisi finanziaria che si è propagata a tutti i Paesi. E infatti la recessione attuale è stata messa in moto dal fallimento di alcune banche americane e inglesi, ciò che ha generato timori di prossime restrizioni del credito e indotto le imprese a ridurre i piani di investimento e le famiglie a rinviare gli acquisti di tutti i beni di sostituzione (auto, elettrodomestici, mobilio, abbigliamento, ecc.). Ma la recessione, una volta avviata, tende ad autoalimentarsi, perché genera una caduta dell'occupazione che porta a una riduzione dei consumi, questa volta non più per precauzione, ma per perdita di capacità di spesa delle famiglie. Ecco perché il sostegno al reddito di chi perde il lavoro diventa lo strumento principale per evitare che la recessione si avviti su se stessa.
La stessa Unione Europea, che vigila affinché i Paesi non oltrepassino certi limiti nei disavanzi pubblici, ne ammette il superamento per eventi ciclici, come l'attuale. Questo significa che i Paesi che hanno gli ammortizzatori sociali più estesi potranno lasciar agire gli stabilizzatori automatici in modo più sostenuto. Ciò eviterà loro disagi sociali e prolungamenti della recessione.
Questo è il motivo per cui anche l'Italia deve dotarsi di un sistema più esteso di ammortizzatori sociali automatici. Il Governo ha già varato provvedimenti in questa direzione e ha anche coinvolto le Regioni. La scelta appare molto opportuna, proprio perché gli ammortizzatori sociali vanno gestiti localmente, dove si riesce meglio a capire le effettive necessità di chi perde il lavoro (sempre però sotto il controllo nazionale per evitare sistemi locali di assistenza populistica), ma segmenta ancora di più il sistema degli ammortizzatori sociali e introduce elementi di discrezionalità che hanno riflessi negativi. Si tratta invece di dare una generalità a questi ammortizzatori per estendere la cassa integrazione a tutti i lavoratori senza discriminazioni, per istituire una vera indennità di disoccupazione e per allargare la tutela a tutte quelle forme di lavoro flessibile che sono state introdotte negli ultimi anni.
La flessibilità del mercato del lavoro in Italia ha giocato un ruolo rilevante nella difesa della nostra competitività e nella crescita dell'economia. La recente rivalutazione dell'Istat relativa al valore aggiunto dell'industria e alla produzione industriale (in particolare per gli anni 2006 e 2007), finalmente rende giustizia a quanti hanno sempre sostenuto che l'industria italiana non si era fermata e non accusava ritardi di produttività, ma si stava ristrutturando verso produzioni a più elevato valore aggiunto. Secondo i nuovi dati (si veda l'articolo di Sergio De Nardis del 20 marzo scorso), il valore aggiunto dell'industria manifatturiera è cresciuto del 6% tra il 2003 e il 2007 contro una stima precedente di appena il 2,6%. Di conseguenza, la produttività è aumentata dell'1,5% all'anno (in linea con quanto avveniva negli altri Paesi europei) e non dello 0,7%, come dicevano le vecchie stime. Questa crescita è stata possibile anche grazie alla ritrovata flessibilità del mercato del lavoro, che ha consentito di provare nuove soluzioni, di accogliere nuove professioni, di esplorare nuovi mercati: tutte cose che le vecchie rigidità non ci consentivano.
Oggi che ci troviamo in recessione, sarebbe veramente ingiusto far ricadere tutto il peso della stessa su queste figure di lavoratori. Ma sarebbe anche particolarmente sbagliato, perché alla fine rischieremmo di perdere questi strumenti di flessibilità, che esistono ovunque e che torneranno particolarmente utili quando finalmente inizierà la nuova fase di ripresa. Ecco perché, a mio avviso, è necessario approntare al più presto una riforma degli ammortizzatori sociali che includa le varie forme di lavoro e tuteli tutti i lavoratori, italiani e immigrati. Il disavanzo di finanza pubblica che ne deriverebbe sarebbe solo temporaneo e contribuirebbe effettivamente a favorire l'uscita dell'Italia dalla recessione.

5 aprile 2009
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