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Le spinte verso la revisione del Patto di stabilità

di Carlo Bastasin

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2 luglio 2009

La motivazione della sentenza emessa mercoledì dalla Corte costituzionale tedesca può cambiare volto all'Europa. Accolte con superficiale compiacimento negli angiporti di Bruxelles e della politica comunitaria, le 147 pagine diffuse da Karlsruhe fissano dei vincoli pesantissimi agli impegni europei del più importante tra i paesi della Ue. Forse è vero che la sentenza non frena la corsa di un Trattato di Lisbona ormai svuotato di significato dalle precedenti modifiche, ma impone d'ora in poi che Berlino non accetti più le decisioni a maggioranza degli organi comunitari senza consultare prima i parlamenti tedeschi in ognuno dei casi in cui le innovazioni legislative europee tocchino la vita quotidiana dei cittadini tedeschi. Teoricamente ogni decisione di Bruxelles potrà essere soggetta ad approvazione nazionale, perché è solo dalla nazione, secondo i giudici costituzionali, che discende la sovranità.

Con la sofisticata ignoranza che li distingue, i giudici tedeschi, isolati nella cittadina del Sud del paese, non vogliono vedere la realtà di un'Europa in cui non esiste più nulla di legittimamente nazionale, perché tutto ciò che viene deciso a Berlino, Roma o Parigi si ripercuote su ogni altro paese. Nemmeno la crisi li ha illuminati. Sotto il peso del "deficit democratico", pongono la politica europea in un equilibrio impossibile. Su un piatto della bilancia c'è il ritorno alle sovranità nazionali, sull'altro la costruzione di una compiuta vita democratica che ora manca in Europa per "ragioni strutturali". Per avanzare verso l'integrazione politica non restano a Berlino che due strade: una è quella suggerita da Larry Siedentop dieci anni fa, basata su un senato europeo in cui sono rappresentati i parlamentari nazionali. La seconda prevede una nuova forma di condivisione politica tra paesi dell'euro. Ma quanto è realistico che avvenga oggi un'accelerazione istituzionale?

In tutte le cancellerie si è impegnati a studiare al microscopio il discorso del presidente francese Nicolas Sarkozy di fronte alle camere riunite a Versailles. Sarkozy ha chiesto che l'Europa cambi dopo la crisi economica: «L'Europa deve dotarsi dei mezzi per partecipare alla trasformazione del mondo». Non è entrato nel dettaglio, osservando che questo non è ancora il momento per discutere del «progetto europeo della Francia». Ma ha gettato comunque un'esca appetitosa nelle acque profonde del dibattito.

Molti hanno collegato il discorso di Sarkozy a precedenti richiami sulla necessità proprio di un governo economico della zona euro. Tuttavia con il discorso di Versailles il presidente francese ha aperto una faglia profonda nel terreno comune su cui un nuovo progetto istituzionale dovrebbe svilupparsi. Annunciando politiche di incremento della spesa pubblica a dispetto dei vincoli di Maastricht, Sarkozy ha gettato nella costernazione i partner tedeschi, come pensare a un governo comune su basi tanto divergenti? Nelle passate settimane il parlamento di Berlino aveva adottato una modifica della Costituzione che rafforza la disciplina di bilancio. L'obiettivo dichiarato alcuni mesi fa dalla cancelleria era di estendere all'intera zona euro l'adozione dei "freni fiscali" all'indebitamento pubblico. La scelta di Sarkozy - «con me non si faranno politiche di austerità» - è parsa contraddittoria fino alla provocazione.

Con un filo di paranoia, il quotidiano Faz ha denunciato una deriva antieuropea da parte di Parigi. La linea socio-gollista di Philippe Seguin, contrario a suo tempo alla cessione di sovranità di Maastricht, avrebbe prevalso nelle menti del primo ministro François Fillon, del presidente dell'Ump Xavier Bertrand e del consigliere del presidente Henry Guaino. Tutti e tre avevano votato "no" al referendum su Maastricht del '92 e ora avrebbero convinto Sarkozy a un repubblicanesimo nazionale privo di remore.

A Berlino c'è più cautela. La lezione della crisi finanziaria è densa di implicazioni per lo sviluppo istituzionale della zona euro. Gli squilibri strutturali tra i paesi sono ampi, all'eccesso di risparmio dell'economia tedesca corrispondono deficit nella maggior parte dei paesi partner. Se Parigi scegliesse la strada dell'allargamento del deficit, Berlino si troverebbe in parte a finanziarlo attraverso la domanda di obbligazioni in euro dei fondi pensione. Il problema per la Germania va alla radice del modello di paese esportatore, disposto a sacrificare i consumi interni (tenendo bassi i salari rispetto alla produttività) pur di conquistare quote di mercato. Una strategia che la Germania ha conquistato con fatica recuperando il rango di campione delle esportazioni mondiali.

Alla recente riunione del Consiglio per le relazioni Italia-Usa a Venezia, Fred Bergsten, direttore del Peterson Institute, ha definito «neo-mercantilisti» i paesi che cercano in tal modo di uscire dalla crisi. Ma a Berlino la critica viene respinta con l'argomento dell'invecchiamento demografico: i tedeschi diventano sempre più anziani e sempre meno in grado di sostenere il proprio livello di vita attraverso il lavoro, per questa ragione stanno accumulando risparmio che dovrebbe essere investito in paesi ad alta crescita in grado di garantire tassi elevati di rendimento del capitale. Il paradosso è però che lo squilibrio interno alla zona euro, se non governato, porterebbe il risparmio tedesco a finanziare altri paesi a rendimento declinante, come appunto la Francia e la Spagna.

  CONTINUA ...»

2 luglio 2009
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