Indicatori reali
L'estate si è chiusa con conferme, l'autunno si è aperto con dubbi. Conferme di inizio ripresa, sebbene per molti attori economici la parola suoni ancora come insulto, perché continuano la carestia di ordini e la moria di posti di lavoro. Conferme basate su statistiche soft, come fiducia e indici anticipatori, e pesanti come la produzione, il fatturato, gli ordini e l'export (quest'ultimo anche globale).
Dubbi sulla tenuta della svolta, inseriti in una granitica certezza: il recupero sarà graduale e lento. Gli economisti (vil razza dannata) escludono in massa che il domani possa riservare sorprese positive e gli fanno eco nel predicare prudenza i policy-maker di ogni angolo del pianeta. Pochi osano immaginare che il rimbalzo risulti direttamente proporzionato nell'intensità alla violenza della caduta. Ma i segnali degli indicatori avanzati dell'Ocse sono corali e consolanti. L'effetto elastico, che si è sempre verificato nelle recessioni passate, sarebbe negato questa volta dalla fragilità del sistema finanziario che continua a lesinare il credito. Ciò appare sicuramente più vero in Europa (dove pure il risveglio della produzione industriale in agosto - mese difficile da interpretare - è promettente) che negli Usa. Non è soltanto una differenza di condizioni della finanza, perché se è vero che il credito bancario non si è ristretto al di là dell'Atlantico meno che al di qua, è anche vero che lì le banche pesano per una frazione dei canali di finanziamento e che la Fed è intervenuta in modo massiccio e deciso a sbloccare tutti gli altri.
L'economia americana è infatti molto più avanti nel realizzare gli aggiustamenti degli squilibri. Lo scossone all'occupazione (7,2 milioni di posti in meno in 21 mesi, -5,2%) è stato feroce ma ormai è agli sgoccioli (il ritmo di espulsione è ora quello normale di una lieve recessione); in Europa invece proseguirà e raggiungerà un'entità analoga. Ciò ha consentito un rapido ripristino dei margini di profitto e le imprese a stelle e strisce godono di una posizione finanziaria che non è mai stata così solida all'uscita da una recessione; sono pronte perciò a investire e stanno già ricominciando a farlo. Nonostante il basso utilizzo della capacità? Sì, perché gli investimenti in nuove iniziative o in miglioramenti di prodotto e processo non sono legati agli impianti esistenti e spesso anzi sono la componente della domanda che tende a saturarne l'impiego. Se ripartono gli investimenti, l'occupazione, il reddito e la spesa delle famiglie seguiranno rapidamente. Tanto più che il tasso di risparmio è risalito e che la ricchezza netta, grazie al riavvio dei prezzi delle case (altra correzione ultimata là, ma non in molte nazioni europee), al recupero dei prezzi di Borsa e al rimborso dei debiti è tornata a salire.
Se si rimette in moto la locomotiva Usa, tutto il convoglio globale avanzerà a ritmi decisamente più spediti dell'atteso. Nell'area euro, e in particolare in Italia, invece, la dinamica dei margini di profitto e in generale dei profitti non ha ancora dato segnali significativi di progresso e il processo di rilancio della domanda di macchinari impiegherà più tempo, ostacolata peraltro in maggior misura dalle difficoltà del credito e da una situazione finanziaria delle imprese molto meno rosea, specie in Italia. Perciò la ripresa nell'eurozona farà più fatica a ingranare.
Inflazione
La dinamica dei prezzi al consumo rimane confortevolmente fredda. Non soltanto quella totale, che risente ancora del favorevole confronto su base annua con l'epoca delle materie prime gonfiate dalla bolla e che sta comunque gradualmente risalendo, ma anche quella core, che si sta abbassando e avvicinando all'1% sia in Usa sia nell'Eurozona. Mentre i corsi delle commodity, dopo essere rimbalzati, stanno oscillando senza particolare direzione, poiché c'è il calmiere dell'abbondanza di offerta. Difficile immaginare una ripartenza dell'inflazione in queste condizioni, che sono invece le più favorevoli per i lavoratori in termini di conforto al potere d'acquisto e dovrebbero perciò rendere facile rinnovare i contratti, quando non si vogliano fare autogol competitivi.
Tassi di interesse, valute, moneta
Le valutazioni che sottendono la decisione delle banche centrali in Israele e in Australia di aumentare i tassi (di un quarto di punto - in settembre in Israele e in ottobre in Australia) sono analoghe: il miglioramento delle prospettive di crescita da un lato e la volontà di uscire dal livello eccezionalmente basso dei rispettivi tassi-guida, dall'altro. In quanto tali, le due decisioni si annunciano come prime e timide "prove tecniche" di una strategia di uscita dalle politiche monetarie fortemente espansive. Ma due rondini non fanno primavera. Di qua e di là dell'Atlantico i tassi delle banche centrali sono saldamente installati vicino allo zero, e c'è una promessa, implicita o esplicita, di tenerli fermi per un tempo considerevole.
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