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Addio all'Alfa Romeo Arese perde anche il design

di Aldo Bernacchi

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01 novembre 2009

Per la Fiat, che pensa in americano e con Chrysler si prepara a lanciare sul mercato Usa l'Alfa, Arese, lo storico quartier generale della casa del biscione, da tempo si era ridotto a un accampamento periferico da cui smontare le ultime tende al più presto possibile. Lo farà agli inizi del prossimo anno, non senza proteste: da domani si annunciano blocchi a oltranza, con i sindacati pronti ad «azioni clamorose».
Ma se per il Lingotto è la conclusione di uno smantellamento in atto da anni, un allenamento in vista della partita più dura che si giocherà in Sicilia con la chiusura già annunciata di Termini Imerese, per Arese il 4 gennaio 2010, con l'uscita degli ultimi 229 dipendenti rimasti, sarà la data che certificherà la fine di un'avventura industriale cominciata nel 1963, quando l'Alfa, allora l'auto della Finmeccanica-Iri che rivaleggiava con lo strapotere della Fiat di Valletta, stava per lanciare la Giulia: un'avventura tanto travagliata quanto socialmente intensa con le sue eccellenze e i suoi assenteisti, laboratorio di lotte sindacali e di pressioni politiche, che entra di diritto nella storia economica del dopoguerra.

«Fino ai primi anni 80 - ricorda Mario Agostinelli, ex segretario della Cgil lombarda, oggi consigliere regionale impegnato nella difesa industriale dell'area - ad Arese c'erano quasi 20mila lavoratori. Erano i tempi in cui in fabbrica veniva anche il grande Eduardo De Filippo, con gli operai che, via le tute e indossati i vestiti della festa, accompagnati dalle loro famiglie, varcavano la soglia del "capannone 6" per assistere alla Filumena Marturano».
Nelle parole di Agostinelli non c'è solo il rimpianto di un passato esaurito, ma anche la delusione per i troppi piani di riqualificazione industriale, come quello incentrato sull'idrogeno quale vettore energetico («avrebbe potuto dare occupazione a 7mila addetti»), arenatisi di fronte all'avanzare delle ruspe e al caos di progetti immobiliari alternativi. A ricordare la lunga stagione di auto e motori da oggi resterà solo l'intestazione della via di fronte all'impianto che il comune di Arese ha voluto dedicare a Giuseppe Luraghi, il presidente-scrittore che sognò la grande Alfa.

Luraghi arrivò alla presidenza nel 1960. L'Alfa l'aveva conosciuta negli anni della sua direzione generale in Finmeccanica. Anni spesi (1952-1956) a trasformare la fabbrica del Portello in un impianto moderno: un'operazione accompagnata dal successo di vetture come la Giulietta e la 1900. Sotto la sua gestione l'Alfa fece giganteschi investimenti ma ebbe sempre bilanci in nero. L'azienda produceva 200mila vetture, più della Bmw che ne faceva 184mila. Era il 1973. Come sempre, anche quell'anno, in agosto, Luraghi era in vacanza a Madonna di Campiglio quando ricevette una telefonata che di fatto cambierà la storia del biscione. Da Finmeccanica lo avvertivano che il Cipe aveva respinto il suo piano di investimenti di 112 miliardi. Ci volle poco per capire che quella bocciatura veniva dall'alto. Ciriaco De Mita e Nino Gullotti, allora ministro delle Partecipazioni statali, avevano deciso che l'Alfa dovesse aprire al Sud un secondo impianto, dopo Pomigliano d'Arco, precisamente in provincia di Avellino, il feudo elettorale di De Mita. Luraghi avrebbe dovuto trasferire la produzione della nuova Alfetta, sottraendo 70mila vetture ad Arese. Si oppose con tutte le sue forze.
Luraghi era ormai isolato. E a gennaio del 1974 venne l'imboscata. Sette consiglieri fedeli a Finmeccanica si dimisero obbligando l'Alfa a rinnovare tutto il consiglio. Con Luraghi uscirono una ventina di manager. Fu un colpo mortale per Arese, sempre più preda delle logiche dei partiti mentre dilagavano scioperi e minacce terroristiche. A dirigere l'Alfa venne dall'Intersind Ettore Massacesi, che non si oppose al nuovo impianto di Pratola Serra, alla periferia di Avellino.
Nei primi anni Ottanta ad Arese c'erano ancora 18mila dipendenti e un consiglio di fabbrica con 400 rappresentanti. Era la cattedrale dei metalmeccanici. Ma i bilanci non erano più quelli di Luraghi. L'ammiraglia 90, fu un clamoroso flop. E anche la 33, pur vendendo non male, scontentava i veri alfisti perchè non aveva più nulla di quella grinta che faceva togliere il capello a Henry Ford tutte le volte che vedeva passare un'Alfa. Ma il peggio doveva ancora venire. Mentre Fiat con la Uno stava risalendo la china, Massacesi condusse l'Alfa verso l'intesa capestro con i giapponesi della Nissan.

Pratola partoriva l'Arna: per la pubblicità era la "kilometrissima", per tutti fu la più brutta auto mai apparsa sulle strade italiane, un primato che nemmeno l'orrenda Duna della Fiat post Ghidella riuscì a scalfire. Per rimediare al disastro l'Iri non trovò di meglio che metterla in vendita. Ci fu una gara. Alla fine prevalse la Fiat sulla Ford. L'Alfa passò a Torino che la pagò 1.050 miliardi. Era il 6 novembre 1986. Qualche giorno prima Luraghi si era schierato per la Fiat ma aveva detto: «Comunque vada a finire l'Alfa, Arese verrà sacrificata». E vide giusto.
  CONTINUA ...»

01 novembre 2009
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