Non c'è crisi finanziaria degli ultimi trent'anni che non abbia avuto il suo epicentro in America latina o che non abbia coinvolto la regione fra le sue prime vittime. La grande crisi degli ultimi due anni, tuttavia, ha colpito il Sudamerica solo a scoppio ritardato, nel caso di molti paesi soltanto dopo il collasso di Lehman, e la ripresa sta arrivando prima che altrove. I due protagonisti che la missione di Confindustria visiterà nei prossimi giorni, Brasile e Cile, ne sono i migliori esempi.
Entrambi appartengono al gruppetto di economie latinoamericane che il Fondo monetario include nella categoria degli «esportatori netti di materie prime con pieno accesso ai mercati finanziari internazionali», quelle che, in un panorama regionale molto diversificato, trarranno i maggiori benefici dalla ripresa della crescita mondiale. Nelle previsioni dell'Fmi infatti, se l'America latina nel suo complesso è destinata a crescere di un 3% nel 2010, il Brasile, nelle stime della maggior parte dei centri di ricerca indipendenti, potrebbe arrivare al 5 e il Cile superare il 4. Altri, come il Messico, più legato all'andamento del l'economia Usa, oppure Venezuela, Argentina ed Ecuador, tagliati fuori dai flussi internazionali di capitali proprio nel momento in cui questi si rivolgono in modo crescente ai paesi emergenti, incontreranno maggiori difficoltà nell'uscita dalla crisi.
Il Brasile sta addirittura attraversando una fase di euforia: la scoperta di ingenti riserve petrolifere al largo delle sue coste, l'assegnazione dei Mondiali di calcio del 2014 e delle Olimpiadi del 2016, il ruolo conquistato sulla scena mondiale come una delle potenze emergenti riunite nei Bric, hanno dato una spinta enorme all'autostima del paese. L'economia ha ridotto le vulnerabilità del passato, trasformandosi da debitore a creditore netto sull'estero, e usando l'espansione del mercato interno per ammortizzare il calo di quelli d'esportazione.
La fiducia degli investitori internazionali, anche in seguito all'assegnazione dell'investment grade da parte delle agenzie di rating, ha portato a tale afflusso di capitali da indurre il governo di Brasilia a introdurre una tassa del 2% sui capitali in entrata, esclusi quelli destinati a investimenti diretti, per frenare la rivalutazione del cambio che rischia di pregiudicare la competitività degli esportatori.
Il ministro delle Finanze, Guido Mantega, ha detto di voler evitare la formazione di una bolla speculativa, visto anche il forte rialzo (vicino all'80% da inizio anno) della Borsa. Il rischio di una bolla, riferito ai paesi di maggior successo in America latina (compresi Cile, Colombia e Perù) è stato evocato dal direttore dell'Fmi per la regione, Nicolas Eyzaguirre. «Cominciamo a essere un po' preoccupati per l'evoluzione così positiva in tempi così rapidi per questi paesi» ha detto. E ha espresso qualche perplessità anche sull'efficacia dei controlli sulle entrate di capitali: parla a ragion veduta, dato che era alla guida dell'economia cilena nel periodo in cui Santiago ha dovuto eliminare le barriere ai flussi di capitale, che avevano progressivamente perso la loro funzione.
Nel caso del Brasile, poi, molti osservatori locali temono che la tassa sui capitali in entrata possa far perdere liquidità ai mercati finanziari nazionali e, in ultima analisi, risultare in un aumento del costo del finanziamento per le imprese.
Se c'è un'incognita all'orizzonte dei due paesi, non viene però dall'economia, semmai dalla politica. Il Cile è stato l'antesignano delle riforme economiche poi adottate da altri paesi della regione, fra cui il Brasile, e ne ha tratto grandi vantaggi in termini di maggior stabilità macroeconomica fin dagli anni '90. La successione alla presidente, Michelle Bachelet, non dovrebbe comunque portare a una radicale alterazione di rotta, anche se Eduardo Frei, il candidato del partito di governo, Concertaciòn, non dovesse prevalere al voto del mese prossimo.
In Brasile, il presidente Lula ha fatto dell'ortodossia la sua bandiera, ma alcuni analisti temono che, nel tentativo di spingere il suo delfino, il suo capo di gabinetto Dilma Rousseff, alle presidenziali del 2010, possa aprire ulteriormente i rubinetti della spesa pubblica e accentuare l'interferenza dello stato nell'economia. Una tendenza già emersa negli ultimi mesi.