Oltre 150 tra comuni e province si riuniscono sabato 6 marzo a Roma per manifestare contro la privatizzazione dell'acqua. "Giù le mani dall'acqua", è lo slogan. Una battaglia politica che prende spunto dalla riforma dei servizi pubblici locali approvata dal Parlamento con il decreto Ronchi-Fitto a novembre. All'incontro aderiscono anche associazioni ambientaliste e forze politiche del centro-sinistra: a quelle che già scelsero questo cavallo di battaglia dentro il governo Prodi, come Verdi e Rifondazione comunista, si aggiunge oggi anche il Pd.
La legge voluta dal governo Berlusconi prevede effettivamente la privatizzazione dell'acqua? È davvero la privatizzazione il problema dell'acqua in un paese dove il 90% delle gestioni idriche restano pubbliche e hanno dato storicamente risultati tanto scadenti? Se così non è, quali sono, invece, i problemi reali? La legge sui servizi pubblici locali conferma il carattere pubblico del bene acqua. Non è vero che l'acqua possa essere privatizzata, non ci sono dubbi. L'acqua resta un bene amministrato. Possono essere affidate in concessione a imprese private, però, le gestioni dei servizi idrici di acquedotto, fognatura e depurazione. Due le strade previste dalla legge per arrivare a una partecipazione privata nella gestione idrica. La prima via è una liberalizzazione moderata che punta sul principio della "concorrenza per il mercato" e affida la gestione idrica al migliore offerente, fra pubblici e privati, sulla base di una gara. Nell'offerta peseranno gli investimenti previsti, le tariffe, la qualità del servizio. La seconda via è quella di una privatizzazione strisciante, obbligatoria per le aziende pubbliche controllate dagli enti locali qualora non si proceda alla liberalizzazione. Gli enti locali devono spogliarsi di quote azionarie non inferiori al 30-40% a seconda dei casi. Due strade ben diverse anche sul piano politico. Quella della liberalizzazione moderata garantisce trasparenza, oltre che alla procedura di assegnazione del servizio, anche al dibattito pubblico.
La seconda presenta rischi maggiori perché aggira regole di concorrenza limitandosi a "contaminare" un monopolista pubblico con un azionista privato. È vero che c'è la nuova procedura di gara a doppio oggetto che consente di individuare il socio privato di riferimento e al tempo stesso il miglior piano investimenti/gestione del servizio, ma non sarà facile conciliare nella scelta i due livelli finanziario e industriale, mentre per le società quotate in Borsa non è fissato alcun paletto, se non che gli enti locali devono scendere gradualmente fino al 2015 sotto un tetto massimo di partecipazione del 30%, lasciando spazio anche a soggetti privati scelti non certo sulla base di gare o della migliore offerta.
Questo non toglie che le polemiche attuali contro la privatizzazione dell'acqua presentino un sapore ideologico. Il gestore può essere indifferentemente una spa controllata dal pubblico o dal privato senza gravi danni, a condizione che restino in mano pubblica tutte le altre funzioni strategiche: l'indirizzo e il controllo amministrativo (che resta agli enti locali e agli Ato), la proprietà degli impianti idrici, l'organo di vigilanza, la formazione delle tariffe. Tutte queste leve restano effettivamente in mano al settore pubblico, alla politica locale. Le polemiche, inoltre, non affrontano il cuore del problema idrico italiano che non è certamente la presenza dei privati nella gestione. Semmai può essere il contrario, l'eccesso di presenza pubblica non solo nelle funzioni "sensibili" ma anche nella gestione industriale.
Oltre il 50% delle gestioni attuali restano nella mani di società in house, controllate dagli stessi enti locali che dovrebbero anche vigilare sul servizio, senza alcuna procedura di trasparenza sui costi o di concorrenza nella qualità dei servizi. Nel Sud, in particolare, il pubblico dilaga. Come rileva il rapporto Isae sulla finanza pubblica locale per il 2009, il 76% dei 1.738 comuni di Campania, Calabria, Sicilia, Basilicata e Puglia affida attualmente i servizi connessi agli acquedotti a società per azioni a capitale pubblico o addirittura a strutture dell'amministrazione comunale con la formula della gestione diretta. Qual è, allora, il cuore del problema idrico italiano? Le ragioni che portarono all'approvazione della legge Galli nel 1994 restano valide, nonostante si siano fatti molti passi avanti dove la legge è stata applicata con coerenza. Gli obiettivi erano tre. Il primo: superare la frammentazione delle gestioni idriche, che allora erano 16mila, piccole e inefficienti. Risultato raggiunto, oggi le gestioni sono un centinaio anche se restano oltre 1.300 gestioni comunali "separate", come sorta di enclave entro i nuovi grandi ambiti territoriali ottimali. Secondo obiettivo: integrare il ciclo idrico, associando alla gestione dell'acquedotto, quella di depurazione e fognatura, assente su larga parte del territorio. Anche questa trasformazione comporta sinergie, risparmi ed economia di scala.
CONTINUA ...»