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«Minacciato su Facebook per la sentenza Google»

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Giovedí 15 Aprile 2010

MILANO
Sul suo profilo di Facebook racconta di aver ricevuto «centinaia di email di offesa e minaccia». Ma di non essersi intimidito perché «ho solo fatto il mio dovere di giudice». Oscar Magi, il magistrato finito sotto accusa del popolo del web per la sua sentenza di condanna nei confronti di tre manager di Google Italy in relazione al caso del video del ragazzo disabile torinese, parla in esclusiva con Il Sole24 Ore.

Google sostiene che questa sentenza potrà stravolgere il volto della rete.

Per mia natura non sono abituato a polemizzare con gli imputati, però mi sembra francamente strano: o non hanno letto bene la sentenza o ho scritto qualche cosa che io stesso non riesco a misurare, come portata. Continuo a pensare che la mia sia una sentenza favorevole al mondo di internet in generale e a Google in particolare. Mi sembra di non aver assolutamente modificato nessun canone fondamentale della rete.

Lei ha anche un profilo su Facebook.

Sul quale mi sono arrivate centinaia di lettere offensive di protesta e soprattutto di minaccia. Su alcune ho dovuto addirittura chiedere l'intervento dei gestori della piattaforma, segnalando l'esistenza di persone minacciose.

Lettere dall'Italia?

Soprattutto dall'estero, da dove mi sono arrivate critiche molto violente. Però le minacce vere sono arrivate soprattutto dall'Italia e invece una serie di email, diciamo così, di approvazione del mio operato dalla Spagna.

Tra le critiche più dure che le sono state mosse c'è il fatto che i tre dirigenti di Google sono stati condannati a sei mesi di carcere. Queste persone non hanno girato il video e non l'hanno caricato sulla piattaforma.

È la legge sulla privacy che prevede delle pene non banali che vanno da un minimo di un anno di reclusione in su. Quindi va considerato che io ho dato loro il minimo dei minimi, di meno non potevo certo fare. Forse in Italia queste norme sulla privacy puntano troppo sul meccanismo della pena intesa come carcere e poco su pene alternative.

Nel caso Google il fine di lucro è stato accertato. Eppure in un'intervista rilasciata sul «Sole 24 Ore» del 26 marzo, il country manager di Google Italy, Stefano Maruzzi, ha sostenuto il contrario.

Una linea di difesa non convincente. Tenga conto, poi, che il processo è stato fatto con rito abbreviato. Il che vuol dire che sono entrate nel dibattimento tutte le indagini preliminari senza nessun filtro. A mio parere le indagini dei pm sono state accurate, soprattutto per rilevare il meccanismo che portava ad avere delle finalità di lucro attraverso il collegamento commerciale esistente tra Google Italy e Google Inc, sempre attraverso il meccanismo degli spot online.

La legge italiana sulla privacy esiste da anni.

Certo, dal 1996 e nel 2003 ha avuto una modifica confermativa. E non si può pensare che una legge che esiste da quattordici anni sia poco conosciuta.

Il concetto di trattamento dei dati è molto complesso e spesso i server che li “custodiscono” sono all'estero.

Sì però il trattamento dei dati non è solo l'immagazzinamento ma anche la diffusione, l'indicizzazione, il collegamento pubblicitario che se ne fa.

Lei crede che queste motivazioni convinceranno l'opinione pubblica americana, che l'ha messa sotto attacco?

Guardi, non mi sono posto questo problema. Va però ricordato che questa è una sentenza per metà di condanna e per metà di proscioglimento e un domani i pubblici ministeri potrebbero addirittura appellarla per quanto riguarda la diffamazione.

Qual è la sua idea del web?

Uno strumento di libertà e di comunicazione prezioso, direi addirittura indispensabile. Questo però non vuol dire che non debba essere vissuta attraverso il confronto con le regole. Non esiste una zona franca dove tutti possono fare quello che vogliono. Non è così che funziona, per il rispetto che abbiamo di noi stessi e della libertà altrui.

D. Le.
www.ilsole24ore.com
http://danielelepido.blog.ilsole24ore.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA


LA DECISIONE

Le tappe della vicenda
Nel 2006 alcuni ragazzi di Torino pubblicano sulla piattaforma “Google Video” le riprese amatoriali che mostrano le molestie a un ragazzo disabile.
Il video rimane in linea per due mesi, dall'8 settembre al 7 novembre ma la rimozione avviene due ore dopo la prima segnalazione fatta dalla polizia postale.
I ragazzi sono condannati nel dicembre 2008 a dieci mesi di “messa alla prova”, un percorso di recupero che li hai visti costretti a frequentare come volontari un'associazione
per disabili.
Il 24 febbraio del 2010 arriva la sentenza del giudice Oscar Magi, della IV sezione penale del Tribunale di Milano, che condanna a sei mesi di carcere tre dirigenti di Google. L'accusa è aver trattato per fini di lucro dati personali sensibili.
Le motivazioni vengono depositate il 12 aprile.

Giovedí 15 Aprile 2010
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