Marco Ferrando
VERBANIA
Tra i 5 e i 7 euro per produrre una caffettiera nello stabilimento storico di Omegna, quando sul mercato ci sono varianti made in China offerte al consumatore a 2-3 euro. C'è una storia di ordinaria globalizzazione dietro alla scelta («sofferta ma inevitabile») del gruppo Bialetti di chiudere la fabbrica dov'è nata la moka, cessarne la produzione diretta e trasferire alcune lavorazioni all'esterno, in parte in altri stabilimenti del distretto o dello stesso gruppo Bialetti (Romania) e in parte nel Far East, in una cerchia ristretta di fornitori «selezionati e costantemente monitorati da un team costituito ad hoc dall'azienda». I risparmi che l'azienda otterrà grazie alla ristrutturazione sono top secret, ma devono essere notevoli visto che la voce manodopera, tra i maggiori fattori di inefficienza del sito piemontese, pesa per il 30%, così come i costi fissi legati allo stabilimento.
Martedì i vertici di Bialetti incontreranno i sindacati e le istituzioni locali del Verbano per fare il punto sulla vertenza che vede protagonista una delle storiche fabbriche del distretto dei casalinghi con i suoi 113 addetti. Ma intanto il direttore generale del gruppo, Giuseppe Servidori, spiega a «Il Sole 24 Ore» le ragioni che stanno dietro all'operazione. Ragioni di carattere finanziario collegate al piano di risanamento della holding (titolare anche dei marchi Rondine e Girmi) e di natura puramente industriale: la chiusura di Omegna rappresenta l'ultima tappa di un percorso che l'anno scorso ha visto il gruppo – che aveva archiviato l'esercizio 2008 con perdite per 25 milioni a fronte di un giro d'affari di 194,2 milioni – ridimensionare la sede di Coccaglio (Brescia) e lo stabilimento turco, oltre a chiudere quello appena avviato in India. Una razionalizzazione che ha già prodotto i primi benefici nel 2009, quando il rosso si è ridotto a 10 milioni, ma che richiede ulteriori sacrifici. Di qui la scelta di concentrarsi sullo stabilimento di Omegna: «A livello globale, il mercato delle caffettiere ha perso il 30% negli ultimi tre anni – spiega Servidori –, in parte per il calo generalizzato dei consumi e in parte per l'affermarsi di nuove abitudini, che sempre di più premiano soluzioni complementari come cialde e capsule». E poi la concorrenza dei paesi emergenti, con prodotti che arrivano a costare tre o quattro volte in meno rispetto a quelli griffati.
Se è vero che lo stabilimento dell'«Omino» è destinato a chiudere, il gruppo Bialetti assicura che farà di tutto per attutire l'impatto. «Siamo disponibili a valutare l'accompagnamento alla pensione di una quarantina di addetti e il trasferimento di un altro gruppo nella nostra sede di Coccaglio», assicura Servidori. Per chi vorrà restare a Omegna, invece, qualche possibilità potrebbe aprirsi nell'indotto, visto che «componenti e assemblaggio a maggior valore aggiunto saranno affidati a partner del distretto, con cui lavoriamo da anni». Una scelta precisa che consentirà alle caffettiere Bialetti di non perdere il marchio di Made in Italy: «Questi prodotti saranno realizzati in Italia per oltre il 50%», assicura Servidori, che comunque non esclude una sforbiciata ai listini che dovrebbe consentire allo storico marchio di diventare più competitivo davanti ai consumatori. I primi effetti della chiusura di Omegna dovrebbero vedersi già sui conti 2010, durante il quale «proseguiremo nel piano di rilancio del gruppo – chiosa il dg – non limitato alle caffettiere, su cui continueremo i programmi di ricerca e innovazione, ma a tutte le linee di prodotto: dagli strumenti di cottura ai piccoli elettrodomestici».
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