Il filo di lana spezzato dal mercato globale

di Paolo Bricco

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20 Aprile 2010
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Il collasso del distretto tessile di Prato, sottoposto alla pressione competitiva dei mercati aperti. E le vicende personali di chi, dopo l'agiatezza, conosce il trauma degli ordini che non arrivano, fino alla chiusura delle aziende. In La storia della mia gente (Bompiani), recensito sull'ultimo numero del Sole 24 Ore Domenica e da domani in libreria, Edoardo Nesi, fino al 2004 imprenditore nella ditta di famiglia, il Lanificio Temistocle Omero Nesi & Figli Spa, racconta che cosa è stato dal dopoguerra lo sviluppo locale italiano, stupefacente perfino per chi lo ha vissuto, e che cosa è successo quindici anni fa, quando la ruota è incominciata a girare al contrario, con i paesi emergenti che hanno riempito i mercati di prodotti a prezzi incomparabilmente più bassi di quelli italiani.

Nesi, che ha riferimenti culturali e letterari alti, descrive il sentimento di ostilità provato da chi si trova a sperimentare sulla propria pelle le conseguenze della globalizzazione. E che, sui giornali e nelle università, segue un dibattito culturale in cui se ne sottolineano gli aspetti positivi. Integrazione dei mercati, concorrenza, unione monetaria, libero commercio e deregolamentazione. Niente più svalutazione della lira e nessun protezionismo per la nostra industria tradizionale. A un certo punto succede qualcosa su un piano emotivo, prima che intellettuale: tanto che le differenze scompaiono e, alla fine, l'élite propugnatrice di questi valori viene vissuta come un tutto unico, sideralmente distante dalla dura quotidianità dei piccoli e medi imprenditori. Dice Carlo Stagnaro, direttore della ricerca dell'Istituto Bruno Leoni, think tank ultraliberista: «Il sentimento antielitario è evidente. Naturalmente la disoccupazione, il disagio sociale e la chiusura di fabbriche non piacciono a nessuno. Ma il mercato pronuncia giudizi oggettivi su chi offre il prodotto migliore nel rapporto fra qualità e prezzo. Addolorarsi per la perdita di posti di lavoro in Toscana, senza ricordare che allo stesso tempo sono stati creati posti di lavoro in altre parti del mondo, significa avere una visione parziale dei processi mondiali».

Per gli economisti d'impostazione liberista lo sviluppo fa morti e feriti. Inutile girarci intorno. «Il gioco della globalizzazione è a somma positiva - spiega Ernesto Felli, docente di economia politica all'Università Roma Tre - dunque a mercati aperti le imprese inefficienti devono chiudere. In Italia e all'estero». La politica, nella visione critica dello scrittore toscano, non avrebbe dovuto abbracciare acriticamente il lasciar fare ai mercati. «Il principio del protezionismo - controbatte Felli - è sempre sbagliato, perché protegge gli insider e tollera le rendite. Il capitalismo, che non contempla il protezionismo, non è obbligatorio. Ma funziona così».

Una visione tanto radicale, però, è alla base dell'antielitarismo percepibile nel libro di Nesi. «Questo antielitarismo - osserva lo storico dell'economia Giuseppe Berta - è una costante della vicenda italiana». Al termine della Belle Époque, subito dopo la globalizzazione di fine secolo, al congresso del 1910 dell'Associazione nazionalista italiana, Filippo Carli, padre del futuro governatore della Banca d'Italia Guido, propose un blocco sociale dei produttori in cui quasi non c'era distinzione fra imprenditori e lavoratori. «Il nucleo di quell'idea - specifica Berta, che insegna in Bocconi - era la forza della virtù del lavoro. In un modello di sviluppo che aveva bisogno di protezionismo. In fondo, anche a questo è richiamabile il pensiero di Giulio Tremonti, critico verso la globalizzazione e alla costante ricerca di un dialogo con un blocco sociale in cui imprenditori e lavoratori non sono più nettamente distinguibili».

Fra il 2000 e il 2010 s'impone nella nostra cultura un codice internazionale che non fa riferimento alle specificità italiane. «Questi economisti - dice Berta - formano un'élite senza territorio nazionale che nega l'esistenza di un modello italiano. Quasi che le peculiarità che lo caratterizzano, per esempio le piccole e le medie imprese di Prato raccontate nelle loro vicissitudini da Nesi, impedissero la realizzazione di un ideale di efficienza economica».

20 Aprile 2010
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