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A Fini conviene costituirsi minoranza nel Pdl. Pensando al futuro

di Stefano Folli

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Martedí 20 Aprile 2010

Oggi che sta vivendo le ore più difficili della sua vita politica, si deve dare atto a Gianfranco Fini di aver sollevato negli ultimi anni una serie di problemi cruciali su cui il centrodestra berlusconiano non ha mai mostrato particolare sensibilità: il ruolo del Parlamento, il rispetto fra organi costituzionali, se vogliamo anche l'idea di un semi-presidenzialismo realistico e di una legge elettorale coerente. Il presidente della Camera ha anche tentato di delineare, ispirandosi a Sarkozy, i contorni di una destra moderna in grado di resistere alle tentazioni xenofobe.
Senza dubbio egli ha commesso errori tattici, dovuti peraltro alla difficoltà di convivere con il leader incontrastato del Pdl, ossia l'uomo del «predellino». Fini ha accettato che il nuovo partito nascesse nella logica di Berlusconi, come era evidente fin dal primo momento. E poche settimane fa ha accettato che nel gioco delle candidature la Lega fosse premiata secondo le intenzioni di Bossi, ponendo così le premesse per lo strapotere del Carroccio nel Nord.
Tutto questo toglie credibilità, non tanto agli argomenti di Fini, che sono validi, quanto alla prospettiva politica da lui indicata, che resta confusa. Ed è qui la ragione per cui il presidente della Camera in questi giorni sta meditando bene le sue prossime mosse. Avendo già subito un'insistita opera di «character assassionation» sul piano mediatico, egli si rende conto di dover misurare i passi. Tanto più che il suo isolamento sul palcoscenico politico è inequivocabile. A parte il drappello dei suoi seguaci, di cui non si sa quanti lo seguirebbero in un'eventuale scissione, un'intervista di Rutelli al «Sole 24 Ore» e alcune timide aperture di D'Alema, non si può dire che l'ipotesi dello «strappo» abbia avuto sostegno. Né il grosso del Pd, escluso appunto D'Alema, né l'Udc hanno acceso qualche luce.
Stando così le cose, la soluzione dei gruppi separati risultava poco praticabile già alla fine della settimana scorsa. A meno di non voler giocare alla «roulette» della politica, in nome di un risentimento personale più che di un progetto lucido. Viceversa, i temi sollevati dal presidente della Camera meritano di restare all'ordine del giorno nel centrodestra. È chiaro, si tratta di una spina nel fianco di cui Berlusconi farebbe volentieri a meno; anche perchè la fuoriuscita di Fini gli offrirebbe una cartuccia da tenere in serbo, in modo da spararla quando vorrà ottenere il voto anticipato. Ma se davvero l'ex leader di An vuol contrastare il «cesarismo» berlusconiano, nonché i cedimenti alla Lega, la scelta più utile per lui - anche se scomoda - è quella di restare nel Pdl, conservando la presidenza di Montecitorio e raccogliendo i sostenitori intorno a un documento politico di spessore.
Tutto questo non sarà indolore. Gli attirerà pesanti ironie e qualche insulto. Si dirà di lui che manca di coraggio e di personalità. Eppure ogni altra scelta, in apparenza più spavalda, rischia di fare il gioco degli avversari e di accelerare proprio quella «deriva plebiscitaria» che il presidente della Camera vuole contrastare. Al contrario, restare nel Pdl, sia pure in posizione di minoranza ufficiale, permetterà di continuare una battaglia che tutto il gruppo finiano giudica meritevole d'essere combattuta. Certo, giunti al punto in cui siamo, ci vuole forse più animo a restare che ad andarsene. Ma se Fini vuole pensare al futuro, cioè al dopo-Berlusconi che prima o poi ci sarà, gli conviene masticare amaro adesso.
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Martedí 20 Aprile 2010
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