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Clegg: l'Inghilterra del bipartitismo ormai non esiste più

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Mercoledí 21 Aprile 2010

LONDRA. Dal nostro corrispondente
«Dobbiamo uscire dalla logica datata di un Atlantismo in automatico. Il mondo è cambiato, la minaccia è cambiata. A Washington nessuno s'aggrappa alla special relationship con la Gran Bretagna. Si parla di relazioni importanti con Cina, India, Unione europea, e poi anche con Londra. Ma se si muovono, se anche gli Stati Uniti vanno oltre, perché noi non possiamo fare altrettanto?». Interrogativo retorico per un oratore che non ha bisogno della tv per dare il meglio di sé.
A Nick Clegg, il fenomeno della politica britannica, basta un microfono e una nutrita platea di giornalisti stranieri per farsi fiume in piena. Ne ha per tutti. Anche per chi vorrebbe sentirsi dire che lui, l'euro, lo adotterebbe subito. «No. Non è uno scenario attuale. E se ci sarà in futuro un'occasione per riconsiderare la questione la valuteremo. Ma ogni decisione passerà da un referendum popolare». Pollice verso anche all'adesione a Schengen, il patto fra partner che ha abbattuto i confini intraeuropei. «Credo che i controlli vadano aumentati. Immagino una polizia di frontiera». Eppure nel libro dei sogni di Nick Clegg c'è una Gran Bretagna capace di relazioni diverse con Bruxelles. Da partner sincero che «vuole cambiare alcune regole dell'Unione, ma non se ne sta a piagnucolare in un angolo. Anzi, svolge un ruolo attivo» nel progetto comunitario.
E per questo, per superare l'eterno equivoco di un'Inghilterra a mezzo servizio in Europa, l'ex negoziatore della Commissione, quale è stato l'attuale leader LibDem, pensa che un giorno se si dovesse fare un referendum dovrà essere decisivo. Non un voto su aspetti specifici di complessi trattati, ma un sì o un no alla membership stessa. Che lui fortissimamente vuole, perché dietro le cautele elettoralistiche mostrate ieri, batte il cuore del leader assolutamente più eurofilo di Westminster. Lo dice la sua biografia e la sua anagrafe, figlio com'è di madre olandese, nipote di nonna russa, addestrato a lungo nelle palestre dell'Unione prima di diventare europarlamentare.
Quella di ieri per Clegg è stata l'occasione per un'offensiva a tutto campo: dai temi di politica estera affrontati nella conferenza stampa della Foreign Press association; a un'intervista all'Ansa in cui ha sottolineato il «rapporto fondamentale che lega Londra a Roma»; al quadro economico con uno scenario rivoluzionario, forse anche troppo, per il sistema bancario. Fino a Goldman Sachs per la quale ha chiesto «la sospensione dal ruolo di consulente del governo».
«Gli elettori votando per noi - ha detto - hanno la possibilità di esprimersi a favore di un sistema finanziario decentralizzato». Ha immaginato il frantumarsi e moltiplicarsi della City con banche costrette a rimpicciolirsi ed espandersi sul territorio, accompagnate da Borse regionali al servizio di un network - per ora, in realtà, inesistente - di piccole e medie imprese. Parole che ha pronunciato con la benedizione di Vince Cable, candidato allo Scacchiere in un ipotetico monocolore LibDem, che, seduto al suo fianco, assentiva. È di Cable l'idea di una radicale riforma del sistema fiscale immaginata dai liberaldemocratici e che prevede, fra l'altro, l'introduzione di una tassa del 10% sugli utili delle banche da aggiungersi alla corporate tax.
Per realizzare tutto questo Nick Clegg dovrà vincere e siccome il sistema elettorale non sembra permetterglielo - anche se Londra è entrata in una fibrillazione che non consente più di escludere anche gli scenari estremi - dovrà allearsi. Il matrimonio più naturale è con il Labour, ma ieri ha evitato architetture post elettorali. «Votare liberaldemocratico significare votare per il programma del nostro manifesto, comprare, come diciamo in Inghilterra, il prodotto illustrato sulla scatola. Null'altro. I sondaggi vanno e vengono, vedremo. Possiamo solo dire che il mondo confortevole che immaginavano Gordon Brown e David Cameron, un mondo abitato da loro due e nessun altro, non esiste più. Il cambio dal duopolio al multipartitismo a cui stiamo assistendo è definitivo, la gente ha capito che votare conta. Sono convinto che se anche ci fosse un partito con la maggioranza assoluta le forze in parlamento dovrebbero parlarsi, incontrarsi, misurarsi per superare una congiuntura tanto complessa».
Da ieri, però, il margine di intese trasversali, Nick Clegg pare averlo ulteriormente ristretto. Sui temi di politica estera ha detto parole mai pronunciate da un aspirante premier. Ha rivendicato la medaglia sul petto dei LibDem nella vicenda irachena. «Siamo stati l'unica forza - ha scandito - ad opporsi alla guerra. E ora in Afghanistan chiediamo una profonda revisione strategica perché se dobbiamo stare laggiù dobbiamo poter fare bene il nostro lavoro». Concetto che si salda all'auspicata revisione dell'intesa transatlantica per come, almeno, è interpretata da Londra. Ovvero ripensamento nell'automatismo della cooperazione, principio che Clegg ha ripetutamente contestato. «Nessuna nazione deve mai rendersi disponibile per default. Si aderisce, si partecipa, si combatte assieme, se è nell'interesse del paese». Parole che lette in controluce, e neppure troppo, accusano Blair e Brown di aver ceduto alle pressioni dell'amministrazione Bush nella guerra irachena.
Il dito del leader LibDem s'è alzato con severità sul programma nucleare Trident, su Israele responsabile di «operazioni militari sproporzionate a Gaza» e sull'Iran contro il quale ha rigettato l'ipotesi di un'opzione militare augurandosi, invece, l'innalzamento, se necessario, della pressione economica con sanzioni concordate da un'Europa a voce unica, d'intesa con gli Usa e in sintonia con Russia e Cina.
  CONTINUA ...»

Mercoledí 21 Aprile 2010
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