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San Paolo sorvegli, non gestisca

di Franco Debenedetti

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Sabato 24 Aprile 2010

Potrebbe essere animato il clima alle riunioni dei massimi organi della Compagnia di San Paolo, la Fondazione che con quasi il 10% è il maggiore azionista della banca Intesa Sanpaolo. Sarebbe invece molto opportuno che prevalesse un clima riflessivo. Serve, quando ci si è cacciati in un pasticcio. Perché di pasticcio si tratta. Prima di tutto è stato, a dir poco, irrituale, da parte della Fondazione volere indicare il presidente del consiglio di gestione della banca, quando nella governance duale, quella nomina spetta al consiglio di sorveglianza. Peggio ancora se l'indicazione è tormentata, e ci si divide prima tra chi voleva confermare Enrico Salza e chi sostituirlo, e poi tra chi al suo posto voleva l'ex ministro del Tesoro Domenico Siniscalco e chi il bocconiano Andrea Beltratti.
A far traboccare il vaso è poi arrivata l'intervista carpita dalla Repubblica a Sergio Chiamparino. Le cose che dice il sindaco di Torino sono vere, ma fa un certo effetto vederle snocciolate tutte insieme su un giornale: la sostanziale prevalenza di Milano in una fusione tra le due banche che doveva essere paritetica; l'opportunità di fare come in Mediobanca, abbandonare la governance duale in favore di quella tradizionale con un presidente e un amministratore delegato, uno di qua e uno di là; i rapporti tra politica locale e banche, tra fondazioni e Tesoro. È verissimo che la politica cerca le banche, e le banche la politica, ma conviene dirlo solo per accusare gli altri di farlo. Insomma, si possono usare argomenti sbagliati ma vincere, o argomenti giusti e perdere: ma non si può perdere usando argomenti sbagliati. Oltretutto per cercare di vincere al gioco degli altri, un gioco per cui non si è fatti.

Adesso è diventato lungo l'elenco delle persone a cui si è dato motivo di risentirsi, da Siniscalco a Salza, da Bazoli a Passera, da Tremonti a Guzzetti. «Stupore, sconcerto, sorpresa e indignazione» ha sparato quest'ultimo a raffica. Guzzetti non è solo il presidente della Fondazione sorella della Compagnia nel controllo della banca, è anche lo storico leader dell'Acri, l'associazione delle fondazioni delle casse di risparmio italiane. La Compagnia di San Paolo vi è entrata solo nel 2007, e per farlo hanno dovuto modificare lo statuto dell'associazione. Ma la questione non è di statuto, è di storia e di cultura. Una cultura, quella dell'Acri, in cui convivono riti diversi, ambrosiano, monferrino, capitolino, tutti accomunati nell'arte squisitamente democristiana di tessere alleanze, guadagnare consensi, conquistare posizioni, e così ottenere risultati superiori alle forze effettive: altro che tre anni ci vogliono alla più squadrata cultura sabauda per imparare certe duttilità.

Lunedì a Torino sarebbe opportuno concentrarsi sui reali interessi della Compagnia e quindi del bacino di popolazioni, di Torino, ma non solo, titolari ultime del suo patrimonio. Cosa ci guadagna la Fondazione dal pretendere che nella gestione della banca si perpetuino gli accordi personali tra i due co-fondatori (anche lì)? E poi, quelle erano intese per forza a tempo determinato e a contenuto indeterminato. Veniamo al dunque. La Compagnia ha quasi il 10% della banca: faccia il suo mestiere, quello di investitore istituzionale, che pone il proprio interesse non nel governare la banca, ma nel fatto che la banca sia ben governata.

Ancora ieri sul Sole 24 Ore il presidente Ciampi ammoniva su questa sostanziale distinzione. Per questo bisogna che il merito sia il criterio di selezione, all'interno per assumere e promuovere, all'esterno per decidere su quello che non per nulla si chiama merito di credito. Ogni altro criterio preferenziale disottimizza la banca, e quindi riduce la redditività del patrimonio della Fondazione. Da Torino quindi non arrivi nessuna imposizione di banchieri "vicini", ma invece si mandino controllori occhiuti, capaci di individuare, denunciare e contrastare operazioni dubbie, in particolare affari sospetti di avere contropartite di potere o politiche.

Nelle discussioni di lunedì si parlerà certo anche di "torinesità". Un costrutto di cui è arduo individuare di che sostanza sia fatto e da che cosa sia determinato. Ancor più oggi quando un oceano separa la Fiat dall'antico acronimo, e la "Gran Torino" che è nelle orecchie di tanti è quella cantata da Clint Eastwood (oltretutto per una Mustang). Gli interessi di Torino e del Piemonte non si servono pietendo per condividere scampoli di potere, ma distribuendo gli utili derivanti dalla gestione del patrimonio. La Fondazione ha un unico prevalente dovere: l'incremento di valore, reddituale e patrimoniale, del capitale che gestisce. Il di più forse non è del demonio, ma è certo un ostacolo di cui liberarsi. I vincoli sull'allocazione del patrimonio non possono essere un tabù.

Se sarà chiaro che dietro il patriottismo di campanile o non c'è nulla o ci sono interessi, magari legittimi ma che contrastano con l'obbiettivo primario, allora non ci sarà più nessuna ragione per considerare la partecipazione della Fondazione nella banca - e la quota di premio al controllo che si porta appresso - fissa e immutabile come le leggi dei Medi e dei Persiani. Se questo sarà chiaro, all'interno e all'esterno della Fondazione, allora questa gran discussione sulla torinesità potrebbe non essere stata inutile.

Sabato 24 Aprile 2010
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