Questa è la settimana più importante negli undici anni di storia dell'unione monetaria europea. Quando sarà finita, sapremo se la crisi di bilancio della Grecia potrà essere contenuta o se diventerà una metastasi.
Per la fine della settimana, il Fondo monetario internazionale e il governo greco dovrebbero essere giunti a un accordo. Tre sono gli aspetti fondamentali: il primo, e il più importante, è che la Grecia dovrà presentare un programma di transizione che spieghi come farà per trasformare un forte disavanzo primario in un'eccedenza altrettanto marcata senza provocare una recessione dell'economia. Quello che ho sentito finora dagli economisti greci è profondamente sconfortante: gran parte delle idee sono trucchi contabili vecchio stampo, come cercare di aggiungere al dato ufficiale del prodotto interno lordo le stime sul peso dell'economia sommersa. Quello che servirebbe è un programma triennale che dichiari in modo dettagliato tagli alla spesa e riforme strutturali.

Il secondo è che il pacchetto di aiuti complessivo dovrebbe essere molto più consistente dei 45 miliardi di euro stanziati finora (di cui 30 miliardi dall'Unione Europea e il resto dall'Fmi). Il contributo della Ue vale solo per un anno e mi sembra molto improbabile che Bruxelles possa rimpolparlo, ora o l'anno prossimo. Axel Weber, il presidente della Bundesbank, ha stimato che la Grecia necessiterà di circa 80 miliardi di euro per tutto il periodo dell'aggiustamento. È una stima più o meno corretta. Quello che serve sentire è un impegno credibile e inattaccabile che vada oltre i 45 miliardi di euro. La Grecia avrà bisogno di copertura per almeno due anni, durante i quali dovranno essere prese, e in massima parte applicate, tutte le decisioni sui provvedimenti necessari per realizzare l'aggiustamento.

Il terzo aspetto da tenere sott'occhio è la situazione in Germania. Il governo di Berlino in un primo momento ha cercato di aggiungere il prestito alla Grecia a una legge esistente, ma c'è stata una levata di scudi e adesso il provvedimento dovrà passare per il tradizionale iter legislativo. Alcuni parlamentari della coalizione di Angela Merkel, tra cui il capogruppo della Csu, la formazione bavarese strettamente legata ai democristiani della cancelliera, hanno già ventilato l'ipotesi di un voto contrario: secondo questi esponenti politici, la soluzione migliore sarebbe che la Grecia lasciasse l'euro per rientrare in un secondo momento. La stessa tesi è sostenuta da fette importanti dell'establishment politico ed economico nazionale.

Siamo di fronte a un concentrato di ipocrisia giuridica. Fingono di preoccuparsi del rigoroso rispetto della clausola antisalvataggi del trattato di Maastricht, ma non crea loro nessun disturbo proporre, chiedendo l'uscita della Grecia dall'euro, una violazione del diritto europeo. Secondo le leggi esistenti, la Grecia non può essere cacciata da Eurolandia. Anzi, non può nemmeno andarsene di sua volontà, senza lasciare contemporaneamente anche la Ue. E in ogni caso per la Grecia è più saggio andare in default stando dentro l'eurozona che stando fuori. E allora che cosa succederebbe se il Bundestag dovesse bloccare gli aiuti? Semplicemente, la Grecia andrà in default, mettendo a rischio molte banche tedesche e francesi che detengono quote importanti del debito pubblico e privato del paese ellenico.

Dei tre punti da tenere d'occhio, alla fine di questa settimana sapremo qualcosa di certo sul primo e sul secondo. Quando al terzo, la discussione si trascinerà. La cancelliera tedesca è decisa a posticipare il voto a dopo il 9 maggio, data in cui va al voto, in Germania, il Land del Nord Reno-Westfalia.
Fino a questo momento il processo decisionale europeo è stato una delle cause principali della crisi. Se continueremo a sentire proposte e dichiarazioni al di sotto delle nostre aspettative più basse, la Grecia andrà dritta verso il default e la crisi si estenderà al Portogallo e anche oltre.

Così come le famiglie infelici sono infelici ognuna a modo suo, il Portogallo è diverso dalla Grecia, ma i suoi problemi sono altrettanto gravi. Il problema, nel caso del Portogallo, non è il settore pubblico. Il debito pubblico lordo del Portogallo, secondo le previsioni Ue, alla fine di quest'anno dovrebbe attestarsi sull'85% circa del prodotto interno lordo: è tanto, ma non tantissimo.

Secondo i miei calcoli, fatti sulla base di dati della Banca mondiale, il debito estero del paese lusitano, contando sia il settore privato che quello pubblico, è a livelli sbalorditivi, il 233% del Pil (74% per il settore pubblico e 159% per il settore privato). La situazione degli investimenti esteri è intorno al meno 100% del Pil. Il disavanzo delle partite correnti secondo le previsioni rimarrà appena al di sotto del 10% del Pil. Siamo di fronte a una crisi acuta del settore privato. E come la Grecia e la Spagna, il Portogallo, durante il primo decennio di moneta unica, ha perso competitività rispetto alla media della zona euro nell'ordine di circa il 15-25 per cento.
Quello a cui stiamo assistendo è l'equivalente europeo della crisi americana dei mutui subprime. Se da Atene entro venerdì non arriveranno improbabili buone notizie, presto esploderà.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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