A chi si è sorpreso domenica per il discorso di Berlusconi sul 25 aprile – un intervento serio nei toni e conciliante nei contenuti, quasi da «padre della patria» – occorre ricordare che siamo a metà di un passaggio cruciale. C'è una legislatura a cui dare un senso oppure da interrompere. E al momento le probabilità sono all'incirca cinquanta e cinquanta. Certo, l'improvvisa attitudine del presidente del consiglio a favore delle riforme «condivise», una linea in sintonia con il pensiero del Quirinale, può lasciare perplesso chi ha ancora negli occhi la scena dello scontro di giovedì e le minacce di espulsione al presidente della Camera.
Ma in realtà quella del 25 aprile è stata un'abile mossa del premier. Dalla quale si capisce che un primo risultato Gianfranco Fini lo ha ottenuto, almeno sul piano dei comportamenti politici. Berlusconi ha infatti subito compreso, da quell'uomo astuto che è, il rischio dell'offensiva finiana contro il «leader carismatico e plebiscitario». È un'immagine con la quale il presidente del consiglio ama civettare, ma che poi deve fare i conti con la realtà.
In questo caso la realtà dice che Fini sta interpretando la posizione equilibrata, attenta alla coesione del paese e agli assetti istituzionali, che dovrebbe essere propria di chi guida una coalizione. Berlusconi non può regalare al suo rivale, al capo dell'«altra destra» che convive nel Pdl, questa linea, diciamo così, istituzionale. Se lo facesse si troverebbe spinto tra le braccia di Bossi più di quanto non gli convenga. E non a caso il capo della Lega fa il suo gioco: intransigente nella sua lotta ai ribelli finiani, sotto la bandiera «riforme o elezioni».
Altro che provocare le dimissioni del presidente della Camera... A parte le battute, il premier ha abbastanza senso tattico da capire che in questa fase la sua parte è quella del ricucitore; dello statista che pensa all'interesse generale, pronto a tendere la mano all'opposizione anche a costo di smentire se stesso. Non può lasciare questo spazio a Fini. E naturalmente non può permettere che siano altri, nel centrodestra, a dialogare con l'opposizione.
Del resto, se si dovrà arrivare allo scioglimento della legislatura e alle elezioni anticipate, l'operazione si potrà fare solo con il consenso del presidente della Repubblica. Anzi, lasciando a lui ogni decisione, senza creare incidenti. Ed è noto quanto poco Napolitano sia propenso a chiamare il paese alle urne, visto che in Parlamento – fino a prova contraria – esiste una larga maggioranza eletta appena due anni fa.
Ragion per cui Berlusconi e Bossi sanno che il sentiero verso le elezioni è tortuoso. Ci si potrà forse arrivare, ma soltanto se il governo avrà prima dimostrato di aver compiuto ogni sforzo per attuare le riforme. Magari accantonando le più improbabili (tipo il presidenzialismo) e concentrandosi su quelle utili a restituire slancio al sistema produttivo. In secondo luogo, occorrerà scaricare su qualcuno la responsabilità dello scioglimento (Fini? il Pd di Bersani?), per ridurre al minimo il rischio di trovare qualche sorpresa in fondo alle urne.
Per ora non siamo a questo. Siamo, appunto, all'interno di un gioco tattico in cui anche Fini si muove con prudenza. Mentre il Pd sembra diviso. Da un lato Bersani che dice: «con Berlusconi le riforme sono impossibili, prepariamo l'alternativa». Dall'altro Violante che appare disponibile a discutere con la destra per verificare le intenzioni di Berlusconi e non lasciargli alibi.