di Dino Pesole
Bancarotta, crisi finanziaria, insolvenza: scenari inquietanti per la Grecia a un passo dal baratro, come avvenne da noi nel 1992, se pur in un contesto europeo e globale non comparabile con l'attuale. Le similitudini sono molteplici, come ricorda Giuliano Amato, che in quell'estate-autunno di 18 anni fa guidava un governo nel pieno della tempesta di Tangentopoli. Anche l'Italia si trovò di fronte al dilemma se intervenire per riportare i conti pubblici entro un sentiero di sostenibilità, oppure scivolare lentamente nell'abisso. L'imperativo categorico era recuperare un minimo di credibilità sui mercati, alleggerire il peso degli interessi che cresceva a ritmo esponenziale facendo volare il deficit. Una spirale infernale, poiché l'alto debito costringeva il Tesoro a offrire rendimenti sui propri titoli che superavano il 12,5 per cento. In questa situazione di grande fragilità partì l'attacco alla lira.
L'Europa era in pieno panico da referendum danese, con il rischio che un no alla ratifica del trattato di Maastricht innescasse un effetto a valanga sugli altri paesi. Il mercato prese a sparare alla rinfusa e le monete meno forti furono le prime a cadere sotto i colpi della speculazione: la peseta e la lira, prime tra tutte. La situazione economica italiana – osservò Amato nel presentare il suo governo alle Camere – è di «particolare gravità, sia per la finanza pubblica che per le strutture portanti del sistema. In assenza di correzioni, dietro l'angolo non c'è l'uscita dall'Europa, il rifugio in un'impossibile autarchia, ma il rischio di diventare una Disneyland al suo servizio, arricchita dal nostro clima, dalle nostre bellezze naturali, dalle vestigia della nostra storia e della nostra arte».
Con il debito pubblico al 105,2% del Pil (nel 1982 era al 64%), con il fabbisogno che viaggiava attorno al 10,4%, con il passivo della bilancia dei pagamenti di parte corrente in crescita, stavamo attraversando «la più grave crisi dopo quella del 1947, all'epoca di Corbino e Einaudi, quando si discuteva se cambiare moneta, l'inflazione era alle stelle, il paese distrutto». La crisi finanziaria era alle porte.
L'antipasto venne servito il 10 luglio con una manovra correttiva da 30mila miliardi delle vecchie lire, con tanto di patrimoniale del 6 per mille sui depositi bancari e postali. Una scelta «dolorosa ma obbligata, e comunque non pari all'alternativa che mi era stata prospettata, quella di aumentare di un punto l'Irpef», sottolinea Amato. Dalla Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi metteva mano alle riserve, aumentava il tasso di sconto, ma per sua stessa ammissione la credibilità del paese sui mercati internazionali aveva ormai toccato il suo minimo storico. Proprio in quelle settimane, Amato giocò la carta della politica dei redditi. L'intesa con le parti sociali che spediva in soffitta la vecchia scala mobile venne raggiunta la sera del 31 luglio. Determinante fu il voto favorevole di Bruno Trentin, che subito dopo partì per le vacanze con la lettera di dimissioni in tasca.
«Ricordo bene quel che mi disse Ciampi, con la sua consueta saggezza e lungimiranza. Mi esortò a chiudere in fretta l'accordo con i sindacati. Sarà di fondamentale importanza, aggiunse. Così fu, perchè quando in settembre decidemmo di svalutare, quell'accordo era operativo». Gli eventi si susseguivano con una successione al cardiopalma. Il 4 settembre, all'apertura del mercato dei cambi, la lira crollava a quota 765,50 contro il marco (poi avrebbe raggiunto quota 800). Vano anche l'ennesimo tentativo della Banca d'Italia che portava il tasso di sconto al 15%, un livello mai raggiunto dal 1985. A partire da giugno gli interventi a sostegno della lira avevano raggiunto i 48 miliardi di dollari. E a fine agosto all'asta dei Bot erano rimasti invenduti titoli per 3.300 miliardi. La sera del 13 settembre, Amato comunicava in diretta tv agli italiani la svalutazione della lira «che a conti fatti – rievoca – si attestò tra il 20 e il 25 per cento. Grazie all'accordo di luglio, tenemmo fermissimo il controllo dei costi interni, il che permise alle imprese di guadagnare 20-25 punti veri di competitività».
La Grecia non può giocarsi questa carta, poiché con l'euro è finita l'era delle svalutazioni competitive, come si chiamavano allora. Il secondo elemento a sfavore dei cugini ellenici – sottolinea Amato – «è che sindacati e imprese marciarono uniti da noi nell'interesse del paese. In Grecia sindacato e opinione pubblica restano convinti invece che nessuno debba interferire su una molteplicità di diritti acquisiti che pesano sul bilancio dello Stato». La lira e la sterlina, in quel drammatico autunno del '92, uscirono dagli accordi di cambio europei, mentre si rincorrevano da noi voci incontrollate su possibili misure straordinarie da economia di guerra, tra cui il prestito forzoso e il parziale congelamento dei rimborsi dei titoli di Stato in scadenza.
La risposta del governo Amato fu la maximanovra da 93mila miliardi, pari al 5,8% del Pil, la più imponente correzione dei conti mai realizzata fino ad allora (43.500 miliardi di tagli, 42.500 di nuove entrate, 7mila di dismissioni). Una stangata da «lacrime e sangue» che servì - lo ricorda lo stesso Amato - «per rientrare, come dissi in Parlamento parafrasando Franco Modigliani, nel consorzio delle società normali». Papandreou «dice le stesse cose, ma il mio grande vantaggio fu che gli italiani si convinsero che quella era l'unica strada». Un po' come avvenne anche nel 1998, quando gli italiani furono a chiamati a contribuire di persona con l'eurotassa (poi restituita al 60%) per agganciare il treno della moneta unica. Uno scatto d'orgoglio nazionale che forse sarebbe utile anche alla Grecia.