L'asticella dei miliardi di euro necessari per salvare con un piano triennale la Grecia ha raggiunto quota 120 e punta verso 130. «Uno spreco di risorse», ha detto ieri al Sole 24 Ore Nouriel Roubini, l'economista che aveva previsto lo scoppio della bolla immobiliare. Il tempo è denaro, e passa. Questi sono i giorni delle rassicurazioni (sì agli aiuti, dicono in Europa; sì alle riforme, dicono in Grecia), poi di solito seguono i giorni delle trattative. Intanto i debiti crescono. Ancora ieri il Financial Times ricordava ai leader europei la scelta da fare: o tirate fuori subito i soldi per la Grecia o decidete che il paese è in default e agite di conseguenza.

Tutto ciò accade sette mesi dopo l'annuncio dell'enorme debito di Atene da parte del premier greco. Ma allora non aveva ragione Otmar Issing? L'ex capo economista della Bundesbank e della Bce aveva detto al Sole 24 Ore dell'11 febbraio 2010: «La verità è che aiutando la Grecia l'Europa entrerebbe in negoziato permanente e difficile con Atene sul futuro della sua politica economica, rendendo l'idea di Europa sempre più impopolare, specie in quegli stati che saranno costretti ad aumentare le tasse per pagare gli aiuti».

In sostanza: la Grecia andava fatta andare in default subito. Così la speculazione non avrebbe potuto scommettere sulla debolezza di una politica incapace di imporre riforme a Bruxelles come a Berlino e ad Atene. I mercati avrebbero subìto tensioni per meno tempo e avrebbero apprezzato il decisionismo di leadership consapevoli dei propri limiti. Tutti avrebbero recepito quale soluzione si profila per chi non tiene in ordine i conti. Ora i mercati, di fronte a vertici o decisioni che affidano la sorte alla data delle elezioni qui e là nel Vecchio continente, iniziano a fidarsi sempre meno».

L'indecisione tra salvataggio e default ha prodotto effetti negativi e rischia di produrne ancora. Con il default e una sorta di amministrazione controllata, i creditori della Grecia avrebbero avuto la certezza di rivedere almeno una parte dei loro soldi, sebbene con un debito greco ristrutturato. Atene sarebbe stata costretta ad avviare un processo di riforme non solo a ripianare i debiti pregressi ma a non eccedere nei debiti futuri. La leadership greca avrebbe potuto meglio spiegare le riforme ai suoi elettori, dando “la colpa”, che poi è in realtà “un merito”, all'Fmi o all'Europa, a seconda di chi si fosse preso in carico il ruolo di giudice fallimentare. L'euro avrebbe dimostrato la sua forza facendo rispettare le regole. I paesi europei avrebbero poi potuto aiutare con accordi bilaterali la Grecia, magari come fosse un'area depressa dell'Europa in cui sono concesse alcune forme di aiuto di stato.

Tutto ciò finora non è stato fatto. Così è facile per noi fare la storia con i se e per David Marsh, chairman di Scco International e autore di The Euro – The Politics of the New Global Currency, criticare sul Financial Times lo stesso Issing riportando due sue frasi. Nel 2006 Issing aveva detto che l'unione monetaria «può funzionare e sopravvivere» anche senza una completa unione politica. Mentre oggi lo stesso Issing dice che «negli anni 90 molti economisti – e io tra questi – avevano avvertito che avviare l'unione monetaria senza aver stabilito un'unione politica significava mettere il carro davanti ai buoi». Forse il problema sta tutto qui. Delle due l'una: o è forte l'unione politica che decide, e allora le ferree regole dell'unione monetaria possono diventare meno ferree senza mettere a rischio l'euro, o è meglio preservare la forza dell'unione monetaria sperando che presto si rafforzi anche quella politica.