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Chi vuole il voto anticipato avrà bisogno della pistola di Sarajevo

di Stefano Folli

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Venerdí 30 Aprile 2010

Il caso Bocchino, per quanto surreale e più o meno incomprensibile per l'opinione pubblica, dimostra una cosa: la legislatura è logora e avrebbe bisogno di uno slancio straordinario per trovare una ragion d'essere. Viceversa la realtà è amara.

Da un lato il partito di maggioranza vive in un clima di sospetti reciproci. Il contrasto di fondo tra Berlusconi e Fini, obbligati peraltro a convivere nello stesso Pdl, ha generato una situazione senza precedenti. Per cui è evidente che il presidente del Consiglio non ha la minima fiducia nella lealtà del presidente della Camera. E quest'ultimo, ben deciso a non aprire uno scontro frontale sul programma, lascia che il fuoco divampi sugli assetti interni di partito.

La polemica sulla supposta «epurazione» del vicecapogruppo Bocchino, al di là delle ragioni e dei torti, ha visto un Fini spettatore silenzioso. E in questo caso il silenzio non suona certo sconfessione del suo collaboratore, che a sua volta non avrebbe potuto agire come ha agito – compresi gli attacchi inusuali a Berlusconi – senza un qualche assenso dietro le quinte da parte del suo punto di riferimento politico.

Dall'altro lato, come qualcuno ha osservato, il Partito Democratico è riuscito a dividersi persino sulle liti intestine del Pdl. In altre parole anche il giudizio su Fini, ossia come valutare la frattura nella maggioranza, ha visto pareri diversi, quando non opposti, che determinano un sostanziale immobilismo. Con D'Alema che considera Fini «un interlocutore» e Bersani che non la pensa allo stesso modo. Un gioco a somma zero che si riflette sul nodo cruciale: il centrosinistra è disposto ad aprire qualche discussione con il governo in tema di riforme, a cominciare dai vari aspetti del federalismo, oppure è determinato a tenere la porta chiusa? Nonostante qualche segnale (Violante, Orlando sulla giustizia) gli indizi sono piuttosto negativi.
Peraltro il Pd non sembra nemmeno prossimo a scegliere una personalità in grado di presentarsi come futuro candidato a Palazzo Chigi. È il punto sollevato da Di Pietro per dare un senso compiuto alla «strategia dell'alternativa», ma D'Alema ha già detto – non senza sarcasmo – che il problema non è la leadership: non c'è all'orizzonte un Blair italiano o un «Obama bianco». Anche in questo caso il Pd sembra imbrigliato.

A questo punto chi può restituire una prospettiva alla legislatura? Non si capisce. Al di là del richiamo generico alle riforme, è abbastanza chiaro che Berlusconi e Bossi non escludono affatto le elezioni anticipate, benché questa ipotesi sia ancora una carta tenuta ben coperta. Di sicuro il progressivo logoramento dei rapporti politici favorirà lo scioglimento. Non subito, naturalmente, ma in un domani non troppo remoto. Magari in un giorno della primavera 2011, se il calendario delle riforme risulterà di qui ad allora impraticabile.

Ma l'operazione è complessa. Richiede assai più che un litigio con Bocchino. Si tratterà di dimostrare a Napolitano che le Camere sono paralizzate. E al momento non si sa dove sia la pistola di Sarajevo. Non si sa chi potrebbe impugnarla ed essere così sconsiderato da fornire a Berlusconi e Bossi il pretesto per chiedere al Quirinale le elezioni anticipate. Il fronte di chi non le vuole è ampio e comprende anche Fini. Il problema è che tale fronte non costituisce una maggioranza politica. Difficile che lo possa diventare domani.

Venerdí 30 Aprile 2010
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