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Quei litigi in famiglia sul generale borbonico

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Giovedí 06 Maggio 2010

di Guido Compagna
La Lega non c'era. Ma gli anti-risorgimentali, e soprattutto gli anti-garibaldini, non sono mai mancati. E, con buona pace di Umberto Bossi, abbondavano soprattutto nel Mezzogiorno. Ne ho conosciuti molti e alcuni mi erano davvero familiari.
Ero un bambino, e quando andavo in visita dai miei nonni materni, il meglio che potevo sentire al riguardo dell'eroe di Nizza è che era un «brigante, avventuriero e malfattore». Quanto all'Italia unita, di essa in casa Cattaneo, se se ne parlava, era soltanto per rimpiangere il Regno delle due Sicilie e i re Borboni. Quelli sì veri sovrani e non, come ebbe a dire un mio zio, «gentarella tipo i Savoia, che non erano neanche Savoia, ma soltanto Carignano», visto che Carlo Felice aveva abdicato in favore di Carlo Alberto che apparteneva a quel ramo cadetto. Dispute, come si vede, di assoluta inutilità, che però a me bambino, che da mio padre non sentivo che parlare bene di Garibaldi, di Mazzini e di Cavour, dava non poco fastidio. Probabilmente fu in quegli anni che accumulai una prepotente insofferenza per tutto quello che era anti-risorgimentale e soprattutto filo-borbonico.
Devo dire che le cose andavano appena appena un po' meglio nella casa dei nonni paterni. Il nonno vedeva con preoccupazione il fatto che papà fosse un liberale di sinistra, che nel referendum del '46, in una Napoli tutta monarchica, si era schierato a favore della Repubblica, e soprattutto diffidava della sua eccessiva passione politica. Lo rassicurava con antica saggezza il barbiere, che gli sussurrava: «Baro', meglio che svarèa (si distrae) con la politica che con il tavolo verde!». Però in quella casa, forse per non arrecare dispiacere al figlio unico tornato dalla guerra, di Garibaldi non si parlava male. Eppure nell'abitazione di mio nonno, in una collocazione d'onore, c'era un ritratto di un generale borbonico. Purtroppo nostro antenato. Si trattava del marchese Francesco Saverio Del Carretto, capo della polizia borbonica che aveva represso nel sangue tutti i moti liberali del primo periodo risorgimentale, in particolare quelli del 1830-31. Un fior di reazionario, dunque. Che però doveva essere tenuto in bella vista. Perché, mi fu detto, la mia bisnonna era una Del Carretto.
Ciò non toglie che, sul fronte dell'antiborbonismo, le difese di casa Compagna erano più che agguerrite. Talvolta con qualche esagerazione. Come quando, in quegli anni, esattamente nel 1956, la televisione trasmise uno sceneggiato tratto dal bel romanzo di Carlo Alianello L'alfiere, un racconto sulla spedizione garibaldina vista dalla parte dell'esercito borbonico. Gli eroi erano insomma i vinti. Un programma che a Napoli ebbe un notevole successo che si concretizzò in una serie di lettere di plauso sul quotidiano cittadino, Il mattino, contro le quali mio padre reagì pubblicamente, denunciando il rischio di una sorta di rivincita neoborbonica.
Per me bambino, intanto, il ritratto del generale divenne presto un'autentica ossessione. Anche perché il nonno (e questo mi fa pensare che non lo avesse poi in grande considerazione) mi minacciava bonariamente, dicendomi che se non mi fossi comportato bene, mi avrebbe «mandato in punizione dal generale». Dopo la morte del nonno, un giorno mia madre ripristinò, questa volta nel salotto di casa nostra, il ritratto del generale borbonico. Che, dopo poche ore, al ritorno a casa di papà, fu su sua indicazione rimosso e sostituito con una stampa garibaldina, certo meno decorativa, ma più consona alle idee della casa.
Le quali erano filo-risorgimentali, filo garibaldine e soprattutto anti-borboniche. Il borbonismo era considerato infatti come una sorta di alleanza tra un'aristocrazia inetta e irresponsabile e una plebe becera, servile e sanfedista, che nella Napoli di quegli anni era riproposta dai monarchici del comandante Lauro e dai qualunquisti. Ma questa è una storia un po' più complessa.
Del ritratto, molti anni dopo, con poca coerenza, me ne appropriai io. In fondo non vivevo più a Napoli, neoborbonici all'orizzonte non ne vedevo, e il quadro faceva la sua figura. Per imprevedibili e non del tutto commendevoli avvenimenti familiari oggi non è più in mio possesso. Il generale si è così preso una vendetta postuma. Forse ha fatto bene. Consentendomi così di poter festeggiare con più coerenza Garibaldi e l'unità d'Italia, centocinquant'anni dopo.
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Giovedí 06 Maggio 2010
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