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L'atto di accusa di Romiti: «Capitalisti che non rischiano»

di Orazio Carabini

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15 aprile 2007

Chi cerca conferme alle moderne teorie dell'impresa è meglio che non si rivolga a Cesare Romiti. La modern corporation di Berle e Means, la società anonima gestita da gerarchie manageriali, non gli piace. Meglio quel capitalismo familiare in cui è il proprietario dell'azienda che prende le decisioni più importanti. Almeno in Italia dove peraltro il caso Telecom ha fatto venire a galla l'inadeguatezza della classe imprenditoriale.
«La verità — dice Romiti — è che nelle grandi imprese nessuno rischia più niente. Tutti quelli che prendono decisioni incassano lauti stipendi e ricche stock option. Se le cose vanno male, al massimo sono licenziati, perdono lo stipendio, non un capitale che hanno investito nell'impresa. Chi rischia di più, paradossalmente, è il piccolo azionista. E il concetto vale ancor più per le banche dove le fondazioni, che pure hanno il merito di aver permesso il riassetto del sistema bancario,sono autoreferenziali, non rispondono che a se stesse. Nel Banco Santander, invece, è Emilio Botin che rischia,con la sua partecipazione azionaria ancora importante. E gli errori si accettano da chi rischia i propri soldi».
Sarà che a 84 anni si può permettere di apparire un po' all'antica ma Cesare Romiti non si lascia incantare dalle sirene del nuovo capitalismo basato sulla separazione tra proprietà e controllo. Per l'examministratore delegato della Fiat non c'è public company che
tenga, non c'è governance che consenta digestire con lungimiranza una società: per funzionare, il capitalismo ha bisogno di capitalisti, di gente che rischia i propri quattrini in un'impresa e che prende decisioni avendo chiaro in mente che se sbaglia perde i suoi soldi.
Oggi Romiti si trova un po' ai margini del potere finanziario. Messo in minoranza in Gemina, ha dovuto rinunciare alle leve di comando in Aeroporti di Roma, la più importante partecipazione della finanziaria. «Uscendo dalla Fiat, mi sono voluto cimentare in attività imprenditoriali investendo la liquidazione che mi fu concessa dopo tanti anni di servizio. Mi sono accorto che solo accettando i compromessi con la politica si va avanti.
Oggi, per esempio, non entrerei più in Adr.Così ora qualcuno potrà dire che nemmeno io sono capace di fare l'imprenditore».
Ma che cosa vuol dire essere imprenditore oggi in Italia? Per Romiti la distinzione è netta. «Nelle piccole e medie imprese c'è un azionista che tira fuori i quattrini e gestisce le scelte importanti. Guarda caso, quelle imprese funzionano bene. Nelle grandi ormai la figura dell'imprenditore non esiste più, gli ultimi a rischiare del loro sono stati Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli. I medi imprenditori a un certo punto smettono di crescere perché hanno paura di fare il salto, non vogliono scendere a compromessi con una politica che non rinuncia a essere invasiva».
Si spiega così il patetico spettacolo offerto dall'establishment finanziarioindustrialepolitico di fronte alla prospettiva di uno sbarco degli americani di At&t e dei messicani di America Mòvil sul pianeta Telecom Italia. «La crisi del capitalismo italiano è la crisi dei capitalisti, di gente che rischia in proprio. E quello che sta succedendo in Telecom deve far riflettere: il sistema bancario si è assunto un ruolo di propulsore che non sa svolgere: non è quello il suo compito».
Che cosa non ha funzionato nella privatizzazione della compagnia telefonica? Il "nocciolino" di azionisti stabili cui nel 1997 partecipò anche l'Ifil degli Agnelli insieme, tra gli altri, a Generali, Credit, Sanpaolo, Ina, AT&T e Unisource? La scalata di Roberto Colaninno e di Chicco Gnutti? La costosa acquisizione da parte di Pirelli e Benetton? «Sono stati commessi tanti errori. A parte la fragilità del nocciolo, che era evidente, fu un errore, per esempio, cacciare Ernesto Pascale, un manager che in molti poi rimpiansero. Non si è mai capito se sia stato il presidente del Consiglio di allora Romano Prodi o il ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi a pretendere la sua rimozione insieme a quella di Biagio Agnes. E poi Massimo D'Alema avrebbe dovuto usare la golden share nel 1999 per impedire l'Opa di Colaninno, tutta finanziata con i debiti che ancora gravano sul gruppo. Almeno Marco Tronchetti Provera e i Benetton dei soldi, pochi, ce li hanno messi. Più i Benetton che Tronchetti, per la verità».
E comunque a dar man forte al capitalismo nostrano arrivano sempre i patti di sindacato. «Sì,la stampella che tiene inpiedi un capitalismo che non esiste più». Romiti non lo dice ma si intuisce che pensa soprattuttoa Rcs di cui è stato presidente dopo aver investito nella società la liquidazione ricevuta dalla Fiat. Eppure i patti di sindacato, il mutuo soccorso del salotto buono della finanza erano l'arma vincente di Enrico Cuccia, il banchiere che è stato a lungo l'anima di Mediobanca e che Romiti rimpiange da quando è scomparso.
Oggi Mediobanca non è più la stanza di compensazione del sistema com'era allora. Sono cambiati i tempi o è una questione di persone? «Mediobanca ha perso la sua centralità,non è più quella di una volta. E indubbiamente questo dipende anche dagli uomini che la dirigono. È stato un errore cacciare Vincenzo Maranghi (il delfino di Cuccia che prese le redini di Mediobanca alla sua morte e che fu estromesso dopo un braccio di ferro con il governatore Antonio Fazio e gli altri banchieri, ndr). Nelle tasche di Cuccia e di Maranghi non è mai entrata una lira oltre a quelle dello stipendio. Avevano un'altraclasse.Cuccia mi raccontava i suoi incontri con altri grandi banchieri come Raffaele Mattioli e Imbriani Longo: si davano appuntamento per mezz'ora, in cinque minuti risolvevano il problema per cui si erano visti, poi parlavano dell'ultimo libro che avevano letto o dell'ultima mostra che avevano visto».
E qui torna a un suo chiodo fisso. «Altro che stock option, quando vedo le classifiche dei compensi del Sole24 Ore mi vengono i brividi. Neanche io ho mai voluto azioni da Agnelli: gli dicevo sempre che temevo di badare troppo agli effetti di breve periodo nel prendere le decisioni». Eppure il nuovo capitalismo si fonda anche sulle stock option e sulla buona governance. Che è sempre in evoluzione: adesso per esempio c'è la novità del sistema duale che piace tanto alle banche. «Nessuno mi ha saputo spiegare a che cosa serve se non a moltiplicare i posti».
Fazio è passato, le banche si sono internazionalizzate (le italiane all'estero, le straniere in Italia), ma l'italianità delle imprese resta il problema all'ordine del giorno. Questa volta con Telecom e Alitalia.«È vero,i nostri vicini in Europa ci tengono ala nazionalità delle imprese e questo forse è un segno dell'immaturità del capitalismo nel Vecchio continente. E i politici italiani sono costretti ad adeguarsi ». Ma anche Romiti, ai tempi, fu un paladino dell'italianità: quando si battè perché l'Iri non cedesse alla Ford ilcontrollo dell'Alfa Romeo. «È un tasto dolente: oggi, con il senno di poi,riconosco che probabilmente sarebbe stato meglio per la Fiat se la Ford fosse venuta a farci concorrenza in casa nostra».
Ma,sia pure dopo molti travagli, oggi la Fiat, concentrata sull'automobile, va bene. Effetto Marchionne? «Sergio Marchionne lo conosco poco. So però che è uno che cammina con scarpe dalla pianta larga, senza punta.Con i piedi ben appoggiati per terra. È pragmatico, realista e non si è fatto catturare dal circuito mediaticopolitico.Aggiungo che mi piace persino il suo stile anche se io non avrei mai fatto entrare in azienda uno in pullover, senza giacca e cravatta». Marchionne ha anche deciso di uscire da Mediobanca: un segno dei tempi? «Una decisione giusta, ora che Mediobanca è una banca come le altre. Capisco meno la scelta di restare in Rcs».
Romiti fece scalpore quando affermò, nel bel mezzo di una delle ricorrenti crisi di Alitalia, che bisognava nazionalizzarla. Oggi sta per essere privatizzata e potrebbero comprarla addirittura i russi di Aeroflot. «In Italia una quota consistente del Pil deriva dal turismo. Mi limitai a osservare che il Paese non si poteva permettere di fare a meno di una compagnia che facesse affluire i turisti, anche a costo di nazionalizzare la società. Oggi però tra le cordate che si sono fatte avanti penso che la soluzione migliore sia quella degli americani del Texas Pacific Group (Tpg): hanno esperienza nel rimettere a posto compagnie aeree, hanno in mente un capoazienda che viene da fuori ma la società resterebbe italiana. Gli altri vogliono solo mettere le mani sul mercato italiano. E poi quella falce e martello nel marchio di Aeroflot...».
Insomma neanche in questo caso si affacciano gli imprenditori italiani. «Preferiscono restare nel loro ambito dove sono bravi. Penso a Leonardo Del Vecchio o a Vittorio Merloni. Ma non fanno ilsalto anche perché hanno paura». Di che cosa? «Di essere costretti a fare compromessi con la politica come è costretto a fare chi non rischia i propri soldi.E spesso sono gli imprenditori a chiedere la protezione della politica soprattutto quando si tratta di contrattare tariffe».
Poi ci sono personaggi come Romain Zaleski che azzecca tutte le mosse o quasi. «Devo riconoscere che Zaleski è abile, le sue operazioni si chiudono sempre in attivo. Ma è un finanziere non un imprenditore».
Eppure un imprenditore italiano con i mezzi per tentare l'avventura Telecom ci sarebbe: Silvio Berlusconi. È vero che la legge al momento non glielo consente ma il settore è in continua evoluzione e le leggi devono adattarsi. «Eh sì, forse è giunto il momento si sdoganare Berlusconi come imprenditore. Bisogna riconoscere che in quella veste ha fatto cose eccellenti. Ricordo ancora che, subito dopo aver comprato la sua prima televisione, mi disse che gli sarebbe tanto piaciuto diventare un giorno il più grande operatore italiano nel settore dei media. Ci è riuscito, rischiando in proprio,anche se con l'aiuto della politica. È stato bravo, ma non è detto che losiaaltrettanto nelle tlc. E poi credo che come contropartita gli chiederebbero di lasciare la politica».
Già, la politica. Qui nei ricordi di Romiti prende il sopravvento l'orgoglio per aver saputo tener testa a due cavalli di razza della Prima Repubblica come Bettino Craxi e Ciriaco De Mita. «Craxi pretendeva di scegliere l'amministratore delegato della Telit, la società che doveva nascere dalla fusione tra Telettra (Fiat) e Italtel (Iri): Marisa Bellisario era anche brava, ma non potevo accettare che passasse il principio di un manager scelto da un politico. Così mandai a monte l'operazione e fummo costretti — con rammarico perché credevamo nell'operazione Telit — a vendere Telettra all'estero». Con De Mita il motivo di conflitto fu la proprietà del Mattino, il quotidiano di Napoli. «La Rcs di Angelo Rizzoli e di Bruno Tassan Din condivideva con la Dc al 50% la proprietà del giornale: il direttore lo sceglieva la Rcs ma la Dc aveva il diritto di veto. Quando De Mita decise che ci doveva mettere il suo fidato Pasquale Nonno lo costrinsi a trovare qualcuno che rilevasse la quota Rcs». Sono fatti di 20 anni fa:già allora i rapporti tra imprese e politica erano piuttosto tesi.

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