«Non credo proprio che mi presenterò all'assemblea», aveva detto Guido Rossi ieri in un'intervista a Repubblica ed è stato di parola. Da oggi non è più il presidente di Telecom in guerra aperta con Marco Tronchetti Provera, che, a detta del Professore, «pretende di controllare la società pur avendo di suo investito solo lo 0,6%». E il secondo passaggio di Rossi in Telecom è durato ancora meno del primo, dieci anni fa ai tempi della privatizzazione dell'ex-Stet. Ancora dimissioni, addirittura due nel giro di dieci mesi: Rossi, il professore prestato per incarichi speciali da università e studi legali a industria, finanza e anche al calcio malato, non si smentisce, confermando con l'uscita anzitempo a settembre dalla Federcalcio, oggi da Telecom di essere un personaggio tanto ambito quanto scomodo.
Ma, come insegna il suo curriculum vitae ricco di missioni pericolose, nelle grandi emergenze — e quella di Telecom lo è da tempo per Tronchetti nella morsa dello scandalo intercettazioni e delle roventi polemiche con Prodi nate attorno al piano Rovati — pubblici o privati non hanno trovato di meglio che rivolgersi a lui, classe 1931, l'avvocato dalle parcelle d'oro che ama presentarsi super partes, pur avendo simpatie mai nascoste per la sinistra in politica e per l'Inter nel calcio. E la convivenza non è mai stata facile. Anche nel calcio finito nel fango, malgrado il Mondiale vinto, il professore chiamato a far da Commissario straordinario per riscrivere le regole e ridare credibilità al pallone, è risultato subito indigesto a un ambiente abituato a fare tutto in famiglia, specie i peccati. «Io agisco nell'interesse di tutti», è il suo motto. Forse anche per questo Rossi non è mai riuscito a sostare a lungo negli incarichi che di volta in volta ha assunto.
Così fu alla Consob dei primi anni Ottanta. Vi arrivò con il piglio giusto per risvegliare un'istituzione scandalosamente sopita. La quotazione dell'Ambrosiano fu il grande banco di prova per il Professore che voleva stanare Roberto Calvi. Rossi aveva intuito che tramite il Banco era nientemeno che il Vaticano a controllare il Corriere. La repentina messa in liquidazione della banca tolse ogni potere di inchiesta alla Consob e Rossi in dissidio con il Tesoro, allora retto da Nino Andreatta, che pure lo stimava, abbandonò la scena.
Anche in Stet non andò oltre il decimo mese. Era arrivato alla fine del gennaio 1997 per gestire la privatizzazione. Per fargli posto il governo D'Alema con Ciampi al Tesoro diede il benservito a un grand commis di Stato come Ernesto Pascale.
Rossi era il vento nuovo. La sua stella polare era la public company e quel che significa in tema di corporate governance. E in nome di questo obiettivo Rossi fu pronto a paragonarsi in assemblea a San Sebastiano, contro cui tutti scagliavano le frecce, pur di difendere anche la golden share dopo averla combattuta una vita. Rossi spiegò che, se fatta a tempo, era un pedaggio da pagare prima di spazzare via per sempre l'ombra del Grande fratello, cioè il Tesoro. «L'azione d'oro — disse con la grinta di sempre è in Stet un falso problema». Meno falso era il problema legato al permanere della figura del capo-azienda che assommava tutti i poteri operativi. Rossi aveva detto all'inizio di non volere compiti gestionali. Ma aggiunse anche che «il potere ce l'ha sempre chi possiede autorevolezza ».Così dopo il successo del collocamento, Rossi partì alla carica della ridistribuzione dei comandi in azienda. Non citò mai Tomaso Tommasi di Vignano, l'amministratore delegato, ma contro la sua onnipotenza il Professore sbandierò le nuove regole della public company che impongono «una corretta gestione dell'impresa sotto il vigile controllo degli amministratori nella massima trasparenza delle decisioni e dell'esercizio delle deleghe». Una sfida cui Rossi aveva legato la sua permanenza in Stet, ma non la spuntò.
Per non tradire la public company, del resto, a metà degli anni Novanta se ne era andato anche da Foro Buonaparte, una volta salvata dal crack Ferruzzi. Lo aveva chiamato Enrico Cuccia, ma il rilancio di Montedison fu per il banchiere l'ennesima prova per affermare il primato di Mediobanca. Rossi la pensava diversamente. Pilotò la barca fuori della tempesta ma non andò oltre un biennio di presidenza, un tempo sufficiente per capire che la sua concezione di capitalismo era assai diversa da quella di Cuccia.
Così nel calcio, l'anno scorso, Rossi capì subito che Moggi non era l'unico reprobo del pallone. Tutto il sistema era da rifondare. Un repulisti che metteva paura a tutti. E il fastidio divenne bipartisan. Non c'erano solo i berlusconiani ( con gli juventini) a metterlo sulla graticola polemizzando forte per lo scudetto finito alla "sua" Inter. A reclamare la sua testa fu anche Diego Della Valle, il patron della Fiorentina, che per disprezzo lo chiamò in tv l'argonauta estraneo al mondo del calcio ma che voleva decidere tutto da solo. Da quel giorno si capì che Rossi in Federcalcio non ci sarebbe stato a lungo. Così, senza nemmeno preavvertire Coni e Figc, accettò subito l'offerta di Tronchetti di succedergli alla presidenza di Telecom. Sembrava un binomio inossidabile. Tanto che si arrivò a pensare che il Professore, felice per il rientro, avrebbe chiuso un occhio sulle odiate scatole cinesi che permettono a Tronchetti di controllare tutto con appena lo 0,6% di possesso. Ma tra i due è calato presto il gelo. Rossi forse era pronto a tollerare un capitalismo solo opaco, ma non anche arrogante come gli è parsa la mossa di Olimpia di escluderlo dal cda senza nemmeno avvertirlo. E ha sbattuto la porta prima che gliela sbattessero in faccia, coram populo in assemblea.