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Quei titoli esotici nelle mani sbagliate

di Marco Liera

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13 luglio 2007

Che cos'hanno in comune un "Range accrual callable swap" e un "Variable capped step-up"? No, non sono complessi rock che faranno concorrenza ai Red Hot Chili Peppers, ma denominazioni che descrivono contratti finanziari. Di questi strumenti hanno parlato in settimana il presidente della Consob Lamberto Cardia e il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. Cardia ha detto lunedì che «oltre il 40% del volume di obbligazioni bancarie collocate dalle banche è rappresentato da titoli strutturati» (quali sono gli step-up), aggiungendo che «si rileva una tendenza all'aumento di tale percentuale, soprattutto per le emissioni più complesse». A proposito dei derivati per le imprese (che ricomprendono gli swap) Draghi ha invece dichiarato che essi «possono accrescere l'efficienza del sistema purché l'informazione al cliente sia completa». Condizione che, come testimoniato dalle numerose e-mail giunte alla rubrica «Derivati chiari» pubblicata ogni sabato su «Plus24», non è verificata in troppi casi.
I derivati a copertura di rischi sui prestiti alle imprese e le obbligazioni strutturate vendute ai risparmiatori nascono con una funzione benigna. La loro crescente complicazione, però, fa sì che si prestino egregiamente agli obiettivi di "creazione di valore unilaterale" di quei soggetti (le banche) che nel loro campo d'attività (la finanza) hanno conoscenze tipicamente maggiori della loro clientela (imprese e famiglie). C'è un supporto teorico a questa affermazione: a parità di efficienza operativa, i settori dell'economia possono essere caratterizzati da maggiori o minori rendimenti del capitale in conseguenza di due fattori. Il primo è il rischio tipico dell'attività. Il secondo - oggetto di vari studi, tra cui quelli del premio Nobel Joseph Stiglitz - sta nell'esistenza o meno di asimmetrie informative tra domanda e offerta.
Negli ultimi anni, la legislazione dei mercati finanziari ha fatto passi avanti significativi per minimizzare tali asimmetrie. Chi sta per comprare un floater ha a disposizione una nota informativa che può consentirgli di comprendere se sia meglio o peggio comprare un BTp. Questo in teoria. Perché per utilizzare veramente le informazioni contenute nella nota occorre possedere conoscenze finanziarie non comuni.
Pertanto, l'asimmetria informativa (o meglio, il deficit cognitivo) caratterizza ancora la domanda di servizi finanziari, anche in presenza di una discreta trasparenza. Gli intermediari hanno così la possibilità di spuntare remunerazioni del capitale in eccesso rispetto al rischio tipico dell'attività. Se così non fosse, gli sportelli bancari non passerebbero di mano, nell'era di internet, a 8-10 milioni di euro l'uno, ma a prezzi inferiori.
Questa visione - più o meno esplicita nel comportamento di certe banche - può rivelarsi miope. Il perché ce lo spiegano Draghi e Cardia. Il primo quando dice - a proposito dei derivati - che «spingere i clienti ad assumere rischi anzichè a coprirli mette in discussione la stessa stabilità». Il caso Italease insegna, e il Governatore lo ha ricordato implicitamente alle banche. Il presidente della Consob ha poi citato l'importanza di una delle principali novità della direttiva Mifid, che introduce una graduazione delle regole di condotta dell'intermediario in funzione della tipologia di investitore. Autocertificarsi «operatore qualificato» come certi imprenditori hanno fatto sotto la pressione dei venditori di derivati non sarà più possibile. Sarà la Consob a stabilire i requisiti dei "clienti professionali", quindi meno protetti. Come ha suggerito il discorso di Cardia, chi è veramente esperto rinuncerà ad alcune tutele ma pretenderà condizioni migliori. A chi non è esperto sarà sempre meno facile vendere strumenti che non capisce.

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