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Quei derivati sui mutui che allarmano le banche centrali

di Marco Onado

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22 luglio 2007

In tempi non sospetti, quattro anni fa, Warren Buffett ha definito i derivati «arma finanziaria di distruzione di massa». Gli rispose Alan Greenspan, allora a capo della Fed, che i derivati avevano sicuramente portato benefici superiori ai costi. Uno a uno e palla al centro. Negli anni successivi, la crescita impetuosa dei mercati, i profitti elevati del sistema finanziario internazionale, la congiuntura favorevole avevano fatto dimenticare la polemica, ma da quando si sono avvertiti i primi scricchiolii dei mutui ipotecari Usa - in particolare dei subprime –esi è arrivati alla crisi di due hedge
fund di Bear Stearns, è riaffiorato il sospetto che il saggio (e ricchissimo) finanziere di Omaha avesse visto giusto.
In Italia, il recente caso Italease ha riproposto il problema dell'uso dei derivati da parte delle imprese, sollecitando autorevoli prese di posizione. In particolare, il governatore Draghi ha espresso recentemente un giudizio più severo e articolato di quello del suo ex collega e richiamato le banche a un uso più prudente dei derivati nei rapporti con le imprese.
Ben Bernanke, successore di Greenspan, ha espresso le sue preoccupazioni in Parlamento, e ha affermato che le perdite collegate al fenomeno sub- prime possono raggiungere 50- 100 miliardi di dollari. Anch'egli comunque ha individuato possibili responsabilità degli intermediari. Il problema è innanzitutto di ordine macroeconomico. Il debito, e gli strumenti derivati ad esso collegati, sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi anni. E' cresciuto il debito delle imprese e delle famiglie in tutti i paesi indu-strializzati, grazie alla combinazione di abbondante liquidità e tassi di interesse storicamente bassi. L'innovazione finanziaria ha poi consentito alle banche di generare immense quantità di debito ( quindi di rischio) trasferendolo poi ad altri operatori sotto forma di titoli strutturati e di strumenti derivati.
L'enorme crescita del debito delle famiglie americane e britanniche in particolareè stata favorita dall'esplosione delle collateralised
debt obligations (Cdo) che segmentano il rischio in più tranches e dei collegati credit derivatives
swap che consentono di trasferire ad altri il rischio di credito. Fintanto che i debitori continuano a pagare e il valore degli asset sottostanti rimane alto, tutto funziona al meglio e le banche fanno affari d'oro. Ma è quando il meccanismo si inceppa che si capisce se le banche si sono comportate come innovatori capaci di aumentare il benessere collettivo, oppure come apprendisti stregoni. I segnali in questo momento non sono certo incoraggianti. La Bank of England ricorda che i titoli emessi nella seconda metà del 2006 hanno perso quasi il 30 per cento del loro valore e che lo spread sui credit default swap è quasi raddoppiato negli ultimi tre mesi; stime ufficiose dicono che per quasi settecento miliardi di dollari di mutui ipotecari americani è scattato l'allarme rosso perché il valore della casa è inferiore a quello del debito residuo; in Inghilterra il tasso di inadempienza è superiore a quello della crisi dei primi anni '90, nonostante i tassi siano decisamente più bassi.
Il problema riguarda in primo luogo Stati Uniti e Regno Unito, ma anche molti altri paesi in cui il mercato immobiliare e i finanziamenti collegati hanno conosciuto un boom senza precedenti, che sfiora la bolla speculativa. L'Italia sotto questo profilo appare meno esposta perché partiva da livelli di indebitamento delle famiglie assolutamente inferiori alla media internazionale. Ma naturalmente in una crisi di natura sistemica gli orbi non stanno troppo meglio dei ciechi. Le autorità internazionali sono quindi chiamate a spegnere per tempoi focolai di una crisi sistemica, senza rinunciare al loro obiettivo di tenere sotto controllo l'inflazione. Ciò richiede di non essere troppo lassisti nella creazione di liquidità che pure potrebbe sembrare la ricetta più comoda (e sicuramente quella più gradita ai debitori) ma di mantenere a livelli tollerabili per il sistema nel suo complesso i tre sintomi gravi della malattia: caduta del valore degli asset reali, inadempienze delle famiglie, caduta del valore dei titoli collegati e perdite conseguenti per i possessori. Se fossero troppo tolleranti su uno solo di questi tre fronti, potrebbero pentirsene amaramente a breve. Ad esempio, poiché il rapporto fra valore delle case e affitti è assai superiore alla media di lungo periodo, si possono avere solo due conseguenze: o diminuisce il primo o aumentano i secondi e in questo caso si avrà un effetto immediato sul tasso di inflazione. Si spiega quindi perché Bernanke, ma anche Trichet, continuino a ricordare che l'obiettivo fondamentale è di mantenere sotto controllo l'inflazione del 2008 e del 2009.
Ma questo è solo la prima parte del compito difficile che le banche centrali hanno di fronte. Bernanke e Draghi hanno infatti messo in evidenza che si pone anche un grave problema di regolamentazione e di regole di condotta.
La maggior parte dei mutui ipotecari americani sono stati collocati attraverso canali non tradizionali (l'equivalente dei nostri promotori), con modalità che sicuramente hanno favorito l'accesso al credito di soggetti fino ad allora esclusi. Ma ciò ha comportato istruttorie del merito di credito troppo sommarie e, quel che è peggio, l'offerta di condizioni iniziali molto allettanti; ad esempio, mutui trentennali con tassi di interesse anormalmente bassi nei primi due. Un po' come il caso Italease, con l'aggravante di riguardare un intero settore operativo e soprattutto di coinvolgere non imprenditori, quindi soggetti con un grado di consapevolezza finanziaria sicuramente superiore alla media, ma famiglie anche delle fasce sociali inferiori e più deboli.
Ciò richiede di definire in modo chiaro le responsabilità dei produttori e dei collocatori di strumenti finanziari, siano essi di investimento, di indebitamento o di copertura dei rischi. L'esperienza dimostra che ci sono stati ovunque eccessi, che devono essere evitati in futuro, ma sarebbe controproducente pensare di risolverli ingabbiando il sistema finanziario in un intrico di nuovee formali regole di comportamento o applicando in modo rigido le vecchie norme ai nuovi problemi. Occorre riconoscere che il mondo finanziario è completamente cambiato e richiede nuove regole che definiscano con chiarezza non solo le responsabilità degli intermediari, ma anche qual è l'esatto confine oltre il quale il rapporto tra banca e cliente equivale a quello tra adulti consenzienti. Occorre quindi coinvolgere le autorità di tutti i principali paesi perché il problema è globale. La Banca dei regolamentiinternazionali di Basilea e lo Iosco hanno in passato promosso importanti iniziative congiunte. In questo campo poi l'Italia si trova in una rara condizione di prestigio: il Governatore presiede il Financial Stability Forum, il ministro dell'economia è stato prima segretario poi presidente del Comitato di Basilea, un alto dirigente del ministero ( Giovanni Sabatini) ha co-presieduto un importante comitato Bri-Iosco. Quale migliore occasione per assumere una posizione propositiva forte in ambito internazionale e dimenticare le tristezze di scalini e scaloni di casa nostra?

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