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Strumenti capestro per piccole imprese ed enti locali

di Marcello Frisone

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15 luglio 2007

I dati parlano chiaro: con i derivati un intero sistema può rischiare il collasso. Quello di 50mila imprese, 4 miliardi la stima attuale del saldo passivo, a cui si aggiunge quello delle amministrazioni pubbliche (-6,5 miliardi solo nel 2003). Ed è presto detto il perché si potrebbe verificare questo default: se tutti i soggetti in debito con il "sistema derivati" fossero costretti a chiudere le loro posizioni, ovvero dovessero estinguere i contratti, a tanto ammonterebbe la perdita (la stima tra l'altro è per difetto).
L'origine.
Il punto di partenza di tanto clamore su questi strumenti finanziari è l'uso distorto che se ne è fatto e se ne continua a fare. L'utilizzo di strumenti derivati non è di per sè negativo, anzi consente di proteggersi da alcuni rischi di mercato altrimenti non "sterilizzabili". Per esempio, un'impresa contrae un debito da restituire alla banca maggiorato degli interessi calcolati a tasso variabile. Affiancato al contratto principale l'istituto propone un contratto Irs (Interest rate swap) che neutralizza la variabilità degli interessi trasformandoli in un onere fisso. Quindi, protegge l'impresa da un eventuale rialzo dei tassi sul finanziamento che le ha concesso. E fin qui l'uso "protettivo" dell'Irs.
L'uso improprio.
Negli ultimi anni, però, l'uso che si è fatto dei derivati è stato sempre più distorto, spingendo le aziende che contraevano debiti con la banca a sottoscrivere complessi Irs di natura più speculativa che protettiva. Perché? Molti tribunali stanno cercando di dare risposta a questa domanda, a volte dando ragione alle banche che dall'operazione hanno tratto considerevoli guadagni, altre volte alle imprese nonostante quest'ultime nei contratti si siano dichiarate «operatore qualificato».
Di certo c'è che all'interno del vasto mondo degli strumenti derivati vi sono moltissime variabili incomprensibili, tanto che perfino gli addetti ai lavori faticano a volte a capirci qualcosa, figuriamoci le tantissime pmi che si sono fidate dei funzionari di banca (remunerati anche in base ai derivati venduti) e hanno firmato quelli che si stanno rilevando veri e propri "contratti capestro". «Il proliferare di strumenti derivati molto complessi - spiega Jacopo Ceccatelli della società di consulenza indipendente JC&Associati - spesso non risponde alle esigenze dei clienti ma a quelli degli intermediari: più complessa è la struttura più elevate sono le commissioni». Ed è proprio da qui che iniziano i guai. Per quelle 50mila imprese (su «Plus24» la rubrica Derivati chiari lo testimonia), ma anche per altre società come nel caso di Banca Italease.
I contratti capestro.
Piera Petrini Levo della Nuova B.B. Srl di Nizza Monferrato (Asti) è una delle pochissime imprese che si espone di persona facendo i nomi dei principali attori di questa vicenda. «Nel 2000 - spiega - forti di una posizione di momentanea "debolezza" dell'azienda, la Cassa di risparmio di Torino (adesso UniCredit) ci impose il primo Irs quale "assicurazione sui tassi": il tutto, aveva detto la banca, a costo zero. Dopo un anno e mezzo, però, scoprii che perdevamo circa 60mila euro. Con l'aiuto di un avvocato e dopo ben due rinegoziazioni ho perso in totale circa 85mila euro e ho chiuso ogni rapporto con UniCredit con la speranza di recuperare la cifra da un'azione legale nei confronti dell'istituto». UniCredit banca d'impresa, già interpellata in passato per rispondere su casi analoghi, anche questa volta ha ritenuto di non replicare pubblicamente sull'argomento alle singole imprese.
I derivati di Banca Italease.
Cosa hanno in comune i "derivati capestro" di cui sopra con quelli dell'istituto guidato a suo tempo da Massimo Faenza? «A quanto risulta - spiega Ceccatelli -, Italease ha operato da intermediario, facendo quindi sottoscrivere contratti Irs alle imprese e chiudendo poi la posizione tramite Irs speculari con grandi banche estere. Ricadendo spesso nella casistica dei "contratti capestro", però, molte di queste operazioni sono andate fortemente in perdita per le imprese italiane e a favore quindi delle banche estere».
Banca Italease - che all'inizio ha comunque guadagnato laute commissioni -, spinta anche da Bankitalia, ha preso la decisione di chiudere i contratti con le banche internazionali. Così facendo ha realizzato circa 600 milioni di perdite, bloccando quindi la possibilità di ulteriori rovesci per sé e (di fatto) per i propri clienti. In ogni caso, a fronte delle perdite realizzate con le banche internazionali, Italease dovrà in un modo o nell'altro rivalersi nei confronti dei propri clienti.

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